Era una domenica pomeriggio, una
delle tante, fresche e assolate domeniche di fine estate che
scorrevano lente e tutte uguali alla casa di Pony, con il privilegio
di oziare un poco dopo le funzioni religiose della mattina e il
pranzo festivo con i bambini dell’orfanotrofio. Candy non aspettava
il suo arrivo quel giorno, a dire il vero non se lo aspettava mai.
Le sue visite erano sempre improvvise e mai annunciate, una folata di
vento che non t’aspetti e si porta via il tuo cappello, così
veloce che quando lo hai raccolto e rialzi il volto al cielo, non la
senti più.
Intenta a sgranare i fagioli appena
raccolti per la zuppa della sera, nella tranquillità della cucina,
Candy avvertì il rumore di un auto in lontananza. Ebbe un tuffo al
cuore, e corse alla finestra con la speranza accesa nello sguardo di
vedere la sua auto svoltare l’ultima curva ai piedi della collina.
La riconobbe all’istante, e le gambe le si fecero deboli. Corse
alla porta, la spalancò e lo aspettò sull’uscio, cercando di
ricomporre in quel breve lasso di tempo che la separava dal suo
arrivo i respiri e i pensieri convulsi.
Il cuore le rimbalzava con forza nel
petto, e sperò che Miss Pony e Suor Lane, quel giorno, indugiassero
un poco di più con le lezioni di catechismo domenicale ai bambini
del villaggio. Quando lui scese dall’auto non trovò nemmeno il
coraggio di muovere un passo. Rimase a fissarlo con le mani giunte in
vita e lo guardò fermare l’auto, scendere, chiudere la portiera e
infine voltarsi per rivolgerle quel sorriso luminoso in grado di
farle battere sempre forte il cuore. Fu solo quando lui allargò le
braccia che riuscì a riprendere il controllo sulle proprie emozioni,
e gli corse incontro desiderosa solo di tuffarsi tra quelle braccia
che non aspettavano altro di accoglierla.
— Sei venuto!
— Più in fretta che ho potuto.
Alzò il viso affondato nel suo petto
per guardarlo in volto, e gli sorrise.
— Miss Pony e Suor Lane sono ancora
al villaggio per il catechismo? È inusuale questo silenzio.
— Sì, ma vieni dentro — lo
invitò, staccandosi da lui. — Ti offro una limonata che ti farà
leccare i baffi. Miss Pony l’ha preparata proprio questa mattina.
— E tu sei riuscita a non berla
tutta?
Gli rispose con una smorfia, e lui la
seguì ridendo attraverso l’ingresso, il salotto e infine la
cucina, notando quanto quell’ambiente, ormai, gli fosse divenuto
estremamente familiare.
Candy prese una brocca dalla madia,
un mestolo dal muro e la riempì travasandola dal grande pentolone
lasciato sul lavello a raffreddare. La appoggiò sul tavolo e riempì
due bicchieri. Ne porse uno ad Albert, rimasto in piedi appoggiato
all’ingresso, e sollevò le sopracciglia con aria interrogativa.
Poi capì.
— Scusami, non ti ho nemmeno fatto
accomodare! — si giustificò arrossendo, con il bicchiere di
limonata ancora stretto nella mano.
— Cos’è questa formalità, Candy?
Mi metti in imbarazzo!
Portò una mano a grattarsi la testa
prima di toglierle il bicchiere di mano, ne bevve un sorso e le
sorrise.
Lei si rilassò un poco, e si
avvicinò alla dispensa per prendere qualche biscotto e riempirne un
piattino. Lo posò sul tavolo, si sedette sulla sedia più vicina,
accavallò le gambe e iniziò a mangiucchiarne uno.
— Lo so. È che ti guardo e non so
ancora bene chi ho di fronte. Guarirò mai?
— Resta come sei, ti prego. Se per
guarire dovessi cambiare ti preferisco malata.
Risero, e Albert prese posto di fronte
a lei. La guardò e vide i suoi occhi sconcertati ma carichi di
aspettativa puntati nei suoi. Quella ragazza era sempre stata un
libro aperto per lui, poteva leggerne sul volto ogni emozione,
pensiero, inquietudine. Qualcosa però, negli ultimi tempi, gli
sfuggiva.
— Questa limonata è davvero
squisita. Se Miss Pony non avesse dedicato la vita a questo
orfanotrofio la assumerei come cuoca personale. Posso prenderne un
altro bicchiere?
Allungò una mano verso la caraffa ma
Candy, intenzionata a dimostrarsi un’ospite di tutto rispetto, fu
più veloce ad afferrarne il manico. Albert indugiò un istante con
la mano su quella di lei e alzò gli occhi a guardarla, poi la
ritrasse, lentamente. Pensò che quel breve contatto doveva averla
leggermente confusa, perché era arrossita e aveva finito per
rovesciare un poca di limonata sul tavolo.
— Sono la solita pasticciona,
scusami! Pulisco subito — disse correndo al lavello per prendere
uno straccio.
— Quando la finirai di scusarti con
me, Candy?
— Quando la finirò di combinare
pasticci. Probabilmente mai.
Si guardarono e scoppiarono di nuovo a
ridere, Albert per l’espressione buffa di lei, Candy per la
consapevolezza della profonda verità insita in quelle parole.
L’allegria sul volto di Candy si smorzò nell’istante in cui
Albert estrasse dalla tasca della sahariana che indossava un foglio
piegato in quattro, per deporlo sul tavolo ben lontano dalla brocca
di limonata. I suoi occhi si colmarono di apprensione, e li puntò
dritti su di lui.
— È giunto il momento?
— A quanto pare, sì. Sei
maggiorenne ora.
Candy allungò una mano a prendere il
foglio, lo dispiegò tra le mani e si apprestò a leggere con
attenzione. Il cuore le batteva forte, e non avrebbe saputo dire se
per il sollievo o la malinconia. O altro.
— Vorrei che tu ci riflettessi bene,
Candy. Con calma, non c’è alcuna fretta.
La ragazza annuì e rimase a lungo a
fissare quell’atto legale che in un modo o nell’altro avrebbe
inciso profondamente sulla sua vita.
— Ti va di fare due passi? — le
chiese a bruciapelo Albert, rompendo il silenzio che era calato tra
loro.
— Stavo per chiedertelo io. È una
bellissima giornata, e sarebbe un peccato trascorrerla interamente in
casa. E poi ho bisogno di prendere un poco d’aria e schiarirmi le
idee.
Ripiegò con cura il foglio che teneva
ancora stretto tra le mani e lo infilò nella tasca destra dell’abito
in percalle verde che era solita usare nei giorni di festa, anche se
impegnata a sbucciare piselli. Accettò con un sorriso la mano che le
aveva allungato per invitarla ad alzarsi e lo seguì nel sagrato
della piccola chiesetta. Albert adorava quel sorriso, avrebbe fatto
qualunque cosa per vederlo splendere sempre sul suo volto come
accadeva in quel momento. Qualunque cosa.
Passeggiarono con calma parlando del
più e del meno, della salute d’acciaio della prozia e dei piccoli
acciacchi di Miss Pony, del lavoro presso la Clinica Felice del
dottor Martin e delle ultime novità a Chicago. Parlarono tanto,
parlarono di tutto tranne di quel foglio al sicuro nella tasca di
Candy, imboccando infine, senza nemmeno esserselo detto, la via che
portava dritta dritta sulla cima della collina di Pony.
— Quanti anni sono passati da
allora, Candy? — le chiese dopo qualche istante di silenzio una
volta raggiunta la meta.
— Tanti, forse troppi — gli
rispose senza pensare, e diede la schiena alla casa di Pony per
fissare lo sguardo all’orizzonte. — Alle volte vengo qui, mi
siedo su questo prato e mi perdo a fissare l’orizzonte, proprio
come ora. Qui è rimasto tutto immutato e se m’impegno riesco per
qualche istante a tornare bambina, a ritrovare quei tempi e guardare
tutto con quegli occhi.
Albert appoggiò una spalla al tronco
dell’albero più vicino, e rimase a fissarla a lungo. La bambina
che era corsa su per quella collina come una pallottola per sfogare
in solitudine tutto il suo dolore era scomparsa, ormai. Di fronte a
lui stava ora una splendida, giovane donna, con più ferite che
battaglie sul cuore, ma dal sorriso immutato, splendente e radioso
come allora.
— Ti mancano?
— No — rispose, sedendosi
sull’erba. — Mi piace ricordare com’era, le sensazioni che
provavo quando tutto era meraviglia e aspettavo pregando che un auto
o un carro o un semplice cavallo comparissero su quella strada per
venirmi a prendere e darmi una famiglia. Immaginavo la mia mamma, il
mio papà. Lei aveva un volto molto dolce e grandi occhi verdi come i
miei. Lui era un signore distinto, con una tuba e folti baffi curati
e neri, come gli occhi.
Albert si sedette accanto a lei, e
passò con lo sguardo quella stradina fatta di ghiaia che dal
villaggio portava alla casa di Pony, chiedendosi cosa avesse mai
potuto provare una bambina che aspettava tutti i giorni che qualcuno
andasse a prenderla per regalarle una casa.
— La tuba ce l’ho, gli occhi
purtroppo sono di un altro colore, come i capelli. E non porto più
baffi né barba.
— Non sei nemmeno mio padre.
— No, non lo sono.
Fissò serio il profilo di lei in
controluce, poi strappò un filo d’erba dal prato e se lo infilò
in bocca.
— Vorrei che tu sapessi che
qualunque decisione tu prenda potrai sempre contare su di me, per
qualunque cosa tu dovessi avere bisogno.
Candy gli strinse una mano, e posò il
capo sulla sua spalla.
— Lo so Albert. Sei stato prezioso
in tutti questi anni. Ci sei sempre stato. Non so cosa ne sarebbe
stato di me se non ti avessi conosciuto.
Lui sorrise e le passò un braccio
intorno alla vita, trasmettendole il suo colore e conforto. A Candy
piaceva poter respirare il suo profumo insieme a quello
caratteristico della collina di Pony. Le davano entrambi la
sensazione di sentirsi a casa.
— Mi chiedo lo stesso di me, Candy.
Tu mi hai letteralmente salvato la vita quando l’unica cosa che
desideravo era morire. Sono io a non sapere cosa ne sarebbe stato di
me, se non ti avessi conosciuta.
— Per quanto riguarda il salvarci la
vita direi che siamo pari. Alla cascata sarei morta se tu non fossi
stato lì.
Albert sorrise nel ricordare quel
giorno. Ci aveva pensato spesso, in seguito. Il suo intervento era
stato davvero provvidenziale.
— Candy, cos’è che ti fa
tentennare di fronte alla proposta di un’adozione effettiva?
La ragazza si ritrasse, e raccolse le
gambe in grembo circondandole con le braccia. Appoggiò il mento
sulle ginocchia e si prese del tempo per riflettere.
— Non sono più una bambina, Albert.
Non cerco più una famiglia, non quel tipo di famiglia, almeno. Sono
adulta, e indipendente. Non voglio rubare qualcosa che non mi
appartiene.
— Rubare? — ripeté lui, colmo di
sconcerto.
— Sì. Sono sempre stata orgogliosa
di affiancare al mio il cognome degli Ardlay ma...vedi… vorrei
portarlo per merito, non per qualcosa che non ho fatto.
— È stata una scelta mia.
— Sì, e non ti ringrazierò mai
abbastanza per questo.
Albert gettò lontano il filo d’erba
che stringeva tra le labbra e si sdraiò sul prato. Le nuvole si
muovevano veloci in cielo, proprio come quel giorno di tanti, tanti
anni prima. Solo che allora aveva compreso cosa fare. In quel momento
per niente.
— È questo l’unico motivo che ti
ha portata a chiedermi di ufficializzare la tua posizione? — le
chiese dopo qualche istante di riflessione.
— Non voglio essere un peso per te,
Albert.
— Ti ho dato l’impressione di
ritenerti tale? — Alzò il capo a guardarla preoccupato, e lei
accennò un sorriso.
— No no, affatto. Sono io che non
voglio crearti problemi. Non sappiamo come andrà in futuro e
io...ecco...non voglio un giorno essere causa di dissapori.
Albert si rialzò a sedere e la scrutò
serio. Candy abbozzò un altro sorriso stentato in risposta al suo
sguardo indagatore e incrociò le gambe sotto il vestito.
— Un giorno t’innamorerai, ti
sposerai, e io sarò solo un peso per te. Non voglio che accada
questo.
Ci mise qualche secondo a
metabolizzare quelle parole. Sbatté più volte le ciglia,
disorientato.
— Capisco. Sarebbe dunque un
problema per te se io mi sposassi?
Ci rifletté un poco su. In realtà
si, sarebbe stato un problema enorme.
— No — rispose invece, cercando di
rimanere il più razionale possibile. — Solo non vorrei che la mia
esistenza potesse diventare un problema per tua moglie, o per i tuoi
figli.
Figli? Scosse la testa, quasi a voler
scacciare quelle assurdità e tornare a pensieri più logici e
razionali. Tornò a guardarla chiedendosi se lo stesse prendendo in
giro, ma sembrava estremamente seria. Ne era convinta davvero!
— Non ti sembra di andare un po’
troppo in là con l’immaginazione e le preoccupazioni?
— Non dirmi che non ci hai mai
pensato! — gli rispose sorpresa, rimanendo a bocca aperta per lo
stupore.
— Non in questi termini.
— Ne esistono altri?
Scoppiò a ridere di fronte
all’espressione perplessa e buffa di lei e piegò una gamba per
posare il gomito sul ginocchio.
— Ho pensato che un giorno
probabilmente mi sarei sposato, che forse, probabilmente, avrei avuto
dei figli, ma non sono mai andato oltre a questo. Per la verità,
penso di non averci speso poi molto tempo a rifletterci.
— Sì, lo capisco.
Sembrava delusa, e lui spostò lo
sguardo all’orizzonte.
— Non esiste proprio nessun altro
motivo a giustificare la tua richiesta?
Lei abbassò a sua volta lo sguardo
sull’erba, ormai il verde stava virando inesorabilmente verso il
giallo e il marrone.
— No. Ero preoccupata per te. E…
davvero tu vorresti adottarmi?
Lo guardò turbata, desiderando e
temendo di sentirne la risposta.
— Solo se ti renderebbe felice,
Candy. Non desidero nient’altro che la tua felicità.
— Lo so. È sempre stato così. E mi
hai sempre resa felice. Hai realizzato ogni mio desiderio e curato le
mie ferite. Come posso ripagarti di tanta gentilezza?
Ripagarlo! Chiuse gli occhi e si passò
le dita a massaggiare la fronte. Di tutte le parole che avrebbe
potuto scegliere, ripagarlo non era di sicuro quella che si
aspettava, o auspicava.
— Mi hai già ripagato di tutto se
ti senti in debito. Vorrei tanto però che scordassi la parola debito
e ti sentissi invece libera.
Non le faceva capire niente. Libera da
cosa, da lui? Come poteva pensare che adottarla l’avrebbe fatta
sentire libera o felice?
— Albert, non voglio essere
adottata.
Albert la fissò a lungo, quasi a
voler cercare e catturare le parole che la ragazza aveva voluto
tenere per sé, e non aveva pronunciato.
— Va bene — accondiscese con un
sospiro che Candy non seppe se interpretare come sollievo o
rassegnazione. — È sufficiente che tu strappi quel foglio. Anche
se in realtà è una bozza, il documento ufficiale nel caso cambiassi
idea dovrai venire a firmarlo a Chicago, di fronte a un notaio.
Candy annuì, accennando un sorriso.
— Non lo prendi come una mancanza di
rispetto o riconoscenza, vero?
— No, Candy — le rispose con un
sorriso, e le accarezzò con dolcezza i capelli mossi dal vento. —
La prendo come una speranza.
Lo fissò titubante, e per un istante
si chiese se la speranza potesse essere uguale alla sua.
— Ti chiedo però un favore.
Potresti aspettare Sahmain? Sarà riunita tutta la famiglia e mi
farebbe piacere se tu vi partecipassi in quanto membro.
— Samhain? — ripeté Candy, con
aria interrogativa. Non aveva mai sentito quel nome.
— Sì, Halloween. La festa di fine
estate o della commemorazione dei morti.
— Mi devo mettere in maschera?
Albert scoppiò in una sonora risata e
appoggiò i palmi delle mani sul terreno ai lati della schiena.
— No, non lo festeggiamo in quel
modo. Penso che alla Prozia prenderebbe un colpo, anche se sarebbe
divertente. — Si appoggiò sui gomiti e tornò serio. —
Commemoriamo i morti. Ma non ci sarà alcun rito tribale, a parte i
fuochi.
— Allora parteciperò molto
volentieri. Commemorerò molto volentieri anch’io Anthony, Stair,
Rosemary e anche i tuoi genitori.
Lui annuì brevemente con il capo e
mormorò un debole: ti ringrazio, Candy.
— Albert, posso sdraiarmi accanto a
te qualche minuto?
Quella richiesta improvvisa lo
sorprese, ma sorrise e si allungò sull’erba.
— Non avrai freddo?
Negò con il capo e lui allargò un
braccio per farle posare il capo sulla propria spalla.
— Come posso essere libera se
nemmeno le nuvole lo sono?
Albert fissò le nuvole e ricordò le
riflessioni pensate tanti anni prima proprio su quella collina e che
aveva riportato a Candy.
— A cosa ti senti legata?
A te.
Non
riuscì a dirlo, però.
— Alla
paura di non esserlo, di non poterlo essere mai.
Albert
rimase in silenzio a lungo, poi si voltò su un fianco e la fissò
negli occhi.
— Lasciala
andare. Non la temere. Quello che deve accadere accadrà comunque,
tutto il resto è solo nelle tue mani.
Le
asciugò una lacrima che aveva iniziato a scorrerle lungo una guancia
e tornò a posare il capo sull’erba e a perdersi a guardare il
cielo azzurro e terso che si apriva infinito sopra le loro teste.
— Un
giorno me lo dirai cosa ti turba in questo modo?
Lei
strinse le dita intorno al tessuto della sua camicia e abbassò il
volto contro la sua spalla, tanto che lui riusciva a vedere solo una
massa di capelli biondi arruffati dal vento.
— È
troppo intimo e sconveniente il modo in cui ci stiamo abbracciando?
Quella
domanda lo spiazzò completamente.
— Pensi
che lo sia?
— No.
— Allora
va bene così.
La
tenne stretta a sé ancora un poco, riflettendo su quella domanda e
sul fatto che non gli avesse ancora risposto. Non era da lei.
— Sì
Albert. Un giorno. Un giorno te lo dirò.
Lui
annuì e respirò il profumo dei suoi capelli. Assorbì il calore del
suo corpo. Era strano, avrebbe dovuto essere lui a scaldare lei. E
non faceva nemmeno freddo!
— Ti
fermi per cena? — gli chiese all’improvviso, cambiando
volutamente discorso.
— Se
non vi è di disturbo, mi fermerei anche per la notte. Partirei
domattina all’alba.
Candy
sorrise contro il suo petto.
— Miss
Pony e Suor Lane andranno in fibrillazione ma saranno felicissime. Ti
adorano.
— Anch’io
— le sussurrò piano tra i capelli. — Tutti voi.
**********
— Quella
ragazza mi farà uscire matto, prima o poi! — disse Albert ad alta
voce, scalando una marcia per imboccare l’ultima curva che dalla
casa Di Pony lo avrebbe immesso sulla strada principale in direzione
Chicago. Gli aveva chiesto se con la maggiore età sarebbe scaduti i
termini che facevano di lui il suo tutore, e i documenti per
rinunciare nel caso a quel privilegio. Lì per lì ne era rimasto
sorpreso, piacevolmente sorpreso a dirla tutta. Poi aveva iniziato a
dirgli quanto gli fosse grata, che non avrebbe mai saputo come
sdebitarsi, e che era giunto ormai il momento che imparasse a
cavarsela da sola. In pratica, non aveva più bisogno di lui.
Quell’ultima considerazione l’aveva presa proprio male, in
effetti, aveva creduto di essere importante per lei, addirittura
fondamentale nella sua vita. Aveva creduto che lei avesse bisogno di
lui, di saperlo al suo fianco. Aveva sperato e capito che aveva
iniziato a provare qualcosa per lui che andasse oltre l’amicizia,
l’ammirazione, la semplice riconoscenza. Dopo quelle parole aveva
iniziato a dubitare, e pensato che forse avrebbe desiderato venire
adottata a tutti gli effetti, e sebbene a malincuore, se era ciò che
desiderava, lo avrebbe fatto, e glielo aveva proposto. Invece no.
Voleva solo essere indipendente, e non rappresentare un peso per lui
e per la sua futura moglie. E futuri figli. Un bel colpo da
attutire, una doccia gelata nemmeno così piacevole. Poi gli aveva
chiesto di abbracciarlo, e si era preoccupata che la cosa non
sembrasse troppo intima e sconveniente. E non si era mai posta tutti
quei problemi prima di allora.
Premette
sull’acceleratore e sbuffò. Eppure, sarebbe stato difficile non
comprendere alcuni suoi sguardi, alcuni rossori. Possibile che avesse
travisato tutto? Niente, non riusciva a venirne a capo. Avrebbe
voluto mettere tutte le carte in tavola quel giorno, baciarla e
rompere il ghiaccio, ma di fronte a quelle parole non si era
azzardato nemmeno a pensarci. Era stata indubbiamente una delle
giornate più strane e infruttuose della sua vita. Se ne tornava a
casa con più domande che risposte, e l’unica cosa che poteva fare
al momento era attendere Samhain e schiarirsi le idee. Voleva
scoprire dove risiedesse la sua felicità, certamente, ma soprattutto
voleva capire cosa diamine le passasse per la testa. E cosa provava
per lui. Cosa provava davvero per lui. Era sempre stata un libro
aperto, ora lo vedeva più chiuso che mai e le pagine scritte con un
inchiostro totalmente invisibile ai suoi occhi.
Perché
mai le aveva chiesto se voleva essere adottata? Era l’ultima cosa
che avrebbe mai desiderato da lui. Possibile non l’avesse capito?
Come poteva solo pensare che lei desiderasse diventare a tutti gli
effetti la sua figlia adottiva?
Quando
si era rivelato come Principe della collina aveva creduto che forse,
alla fine, una possibilità l’aveva. Dopo tutto quello che si erano
detti, lo scambio epistolare tra loro, le promesse fatte, ciò che
aveva dichiarato, aveva creduto che lui avesse capito. Certo, era
tutto ancora molto strano pure per lei, ma l’intensità dei
sentimenti che provava per lui era un qualcosa al quale non riusciva
ancora a dare bene un nome. Era tutto ancora troppo strano, troppo
grande. Forse lo aveva spaventato? Le aveva detto che desiderava solo
la sua felicità, che avrebbe fatto di tutto per regalargliela anche
in futuro, e ora se ne usciva con questa storia dell’adozione?
Candy
non riusciva proprio a venirne a capo. Di nuovo seduta al tavolo a
sgranare fagioli e piselli, rimasugli del pomeriggio precedente, non
si dava pace. Con disappunto, si accorse che bucce e frutti erano
finiti mischiati tra loro così, con un sospiro di frustrazione, si
mise a suddividere il contenuto del giornale e della ciotola.
Quell’uomo l’avrebbe fatta impazzire sul serio, prima o poi.
— È
stato gentile il signor Ardlay a proporti un’adozione a tutti gli
effetti — ruppe il silenzio Miss Pony, scostando una sedia per
prendere posto accanto a lei e aiutarla a completare il lavoro.
— Sì,
lo è sempre.
— Hai
già deciso cosa rispondergli?
Candy
soppesò le parole. Sì che aveva deciso, era la motivazione a non
piacerle.
— Sì.
Gli ho detto che rifiuto, e lui mi ha chiesto di aspettare la festa
dei morti.
— È
una scelta che ti fa onore, bambina mia.
Candy
accennò un sorriso, ma le uscì più amaro di quanto avrebbe
desiderato mostrare. Miss Pony era così dolce e saggia, si riteneva
fortunata ad avere una mamma come lei. Anzi, era fortunata due volte,
perché lei di mamme ne aveva ben due!
Albert
aveva sicuramente qualcosa in mente per averla invitata a quella
festa e chiederle di aspettare. Ma mannaggia a lui se per una volta
l’avesse messa a conoscenza delle sue intenzioni!
Continuò
a rimuginare sulla questione per tutti i i giorni che seguirono: alla
casa di Pony, alla clinica Felice, sdraiata nel letto in attesa in
prendere sonno ma niente, più ci pensava più la risposta sembrava
sfuggirle, sgusciarle tra i pensieri e nascondersi nei meandri
inesplorati della sua mente.
Quella
sera chiuse il libro con uno sbuffo dopo essersi resa conto che era
la terza volta che rileggeva la stessa pagina dall’inizio alla fine
senza riuscire a ricordare cosa mai avesse letto. Sollevò le
coperte, abbassò il lume della lampada ad olio sul comodino e si
alzò dal letto. Non sarebbe riuscita a prendere sonno comunque,
tanto valeva muoversi. L’idea di partecipare a quella festa, poi,
non l’allettava per niente. Non conosceva bene tutti i partecipanti
— era talmente numerosa quella famiglia! — che faticava ancora a
ricordare tutti i loro nomi. Ma ci sarebbero stati Annie, Archie,
forse anche Patty e loro sì che li avrebbe rivisti volentieri! I
Lagan no, ma in quel momento rivederli era l’ultimo dei suoi
problemi.
In
realtà, ciò che la scombussolava e la faceva tentennare
sull’opportunità o meno della sua partecipazione alla festa era il
rapporto non ben definito che la legava ad Albert. La gita a Lakewood
aveva segnato un punto di svolta, o almeno così aveva creduto. Ora
non era rimasto più nulla di non detto tra loro, e si era convinta
che entrambi avessero manifestato i propri sentimenti. Più o meno.
Solo che poi, da lì, non si erano più mossi. Nessuno aveva più
toccato l’argomento e lei non sapeva proprio cosa pensare. Si erano
visti, divertiti, erano andati a pescare e fatto più di un pranzo
domenicale molto piacevole alla casa di Pony. Ma per quanto
riguardava il loro rapporto…
Estrasse
dal cassetto dello scrittoio la copia dell’atto che avrebbe fatto
di lei una ragazza libera o una figlia adottiva a tutti gli effetti,
e se lo girò più e più volte tra le dita.
— Bah!
— esclamò frustrata, lasciando cadere il foglio sullo scrittoio. —
Chi capisce Albert è bravo!
Sì,
ma intanto lei cosa avrebbe dovuto fare? Prendere il toro per le
corna e chiedergli esplicitamente: “E adesso come la mettiamo?”
No, non era decisamente il caso. E si sarebbe vergognata da morire.
Baciarlo di punto in bianco, vedere la sua reazione e allo stesso
tempo che effetto avrebbe avuto su di lei? Certo, ci aveva pesato
spesso, e ogni volta, chissà perché, si era ritrovata a starnutire.
Ma nemmeno quella le sembrava proprio un’ottima idea. Non stava
bene, una ragazza a modo non si sarebbe mai comportata così, e poi
aveva una fifa tremenda della sua reazione. Davvero non sapeva che
pesci pigliare! Con Anthony e con Terry non era stato così
complicato, tutto era successo in modo molto naturale, e lei non si
era arrovellata il cervello nel tentativo di comprendere come
stessero le cose fra loro. Certo, non aveva avuto con loro il
rapporto che aveva con Albert, in fondo aveva fatto parte della sua
vita praticamente da sempre, ma era meglio non pensare a quel
discorso e a quanto le avesse nascosto perché la cosa un poco la
faceva ancora arrabbiare. Ma forse, in effetti, era proprio quello il
problema: lo conosceva bene, molto bene, anni di convivenza lasciano
il segno, eppure ora aveva la sensazione di non conoscerlo affatto.
Guardò
fuori dalla finestra e lasciò che lo sguardo si perdesse nel buio,
in lontananza, oltre le sue colline. Lì in fondo, da qualche parte
in quella direzione, c’era Chicago. Come si sarebbe presentata a
quella festa, in qualità di cosa? Ecco, quella forse era proprio la
domanda giusta da porgli.
Doveva
parlargli. Il fine settimana seguente sarebbe andata a Chicago. Sì,
era la cosa migliore da fare. Senza avvertirlo però, avrebbe dovuto
prenderlo alla sprovvista. Era l’unico modo per riuscire a scucire
qualcosa di bocca ad Albert, e anche anche… era più bravo di lei,
molto più bravo di lei a mascherarsi e rigirare i discorsi a suo
favore, purtroppo!
**********
E
così, il venerdì mattina seguente, armata di cappellino e una
piccola valigia al seguito si avviò di buon ora lungo la stradina
che dalla Casa di Pony scendeva serpeggiando fino al villaggio. Aveva
fatto un’alzataccia, ma se voleva prendere il piccolo (e unico)
autobus che dal villaggio l’avrebbe portata a Chicago non aveva
altra scelta. Un treno sarebbe stato sicuramente più comodo – e
più veloce - ma la ferrovia di lì purtroppo non passava. Era già
un miracolo che partisse un autobus una volta al giorno, e se non si
fosse affrettata avrebbe anche rischiato di perderlo.
Assonnata
e più determinata che mai salì sulla corriera e pagò il biglietto
al conducente, sistemò la valigia con una certa fatica nel
portabagagli sopra la sua testa, prese posto e appoggiò la testa sul
vetro del finestrino. Bene, era l’unica passeggera, e avrebbe anche
potuto dormire un po’ lungo il tragitto. La sua determinazione a
portare a termine il progetto era più forte che mai, solo le gambe,
una volta seduta, avevano iniziato a tremarle un po’. Finché a
tremarle erano solo le gambe, ad ogni modo, andava tutto bene.
Sperava solo che fosse il cuore, inspiegabilmente o per qualche
motivo, a non iniziare a farle brutti scherzi.
Uscita
dalla stazione di Chicago si chiese se fosse il caso di raggiungere
Albert direttamente in ufficio e fargli una sorpresa o attendere il
suo ritorno alla residenza degli Ardlay. Non ci aveva pensato durante
il viaggio, ma trascorrere l’intera giornata da sola con la Prozia
nell’attesa non era una prospettivo molto allettante. Rimase
qualche istante ferma, con la valigia in mano, a valutare quale
direzione prendere. Decise infine di fare una passeggiata, e godersi
un poco la città. La valigia al seguito non era particolarmente
pesante ma nemmeno il massimo della comodità, ma di sicuro le
avrebbe fatto perdere un po’ di tempo nell'attesa di decidere
quale direzione imboccare.
Fu
proprio nel momento in cui rialzò il capo dopo aver posato la
valigia su un gradino per riposarsi un poco che lo vide. Sbatté più
volte le ciglia per essere sicura che non si trattasse di un abbaglio
e si avvicinò lentamente alla vetrina della pasticceria che
affacciava sul marciapiede. Nessun abbaglio, quello era proprio
Albert… e in compagnia di una bellissima donna mora, vestita in
abiti eleganti e alla moda, e dall'atteggiamento estremamente
raffinato. Ma soprattutto, notò con sorpresa, estremamente intimo.
Aveva appoggiato una mano sull'avambraccio di Albert, e rideva per
qualcosa che lui doveva averle detto.
Rimase
incuriosita a osservare la scena con il naso a un palmo dal vetro,
finché la donna non sembrò notarla e indicarla ad Albert , e lei
lo vide voltarsi nella sua direzione. L’espressione sorpresa sul
volto gli si allargò in un sorriso e Candy fece istintivamente un
passo indietro aggiustandosi il cappello appena lo vide alzarsi dal
tavolo per raggiungerla.
— Ciao!
— le disse allegro, lasciando trasparire tutta la sua sorpresa. —
Cosa ci fai tu qui?
— Ciao
— gli rispose imbarazzata per essere stata colta in flagrante, e
ricordandosi all’improvviso di aver lasciato incustodita la
valigia. — Sono venuta a fare delle commissioni per Miss Pony e
Suor Lane, e già che c’ero farti una sorpresa.
Aveva
detto la prima cosa che le era passata per la testa, e si sentì in
colpa, perché non le piaceva mentire, tanto meno ad Albert. Però,
in fondo, era solo una mezza bugia… e non poteva di certo dirgli lì
in mezzo a un marciapiede il motivo della sua visita, soprattutto
dopo averlo visto con quella donna! Lui sorrise, le fece l’occhiolino
e la invitò ad entrare.
— Vieni,
ti presento una persona.
Lo
seguì titubante all’interno del locale e un profumino delizioso le
solleticò le narici. Aveva una fame tremenda, ma anche se l’idea
era allettante non poteva certo pranzare in una pasticceria! La sua
attenzione era tutta presa dalle fette di torta messe in bella mostra
in vetrina, finché non si accorse di aver raggiunto il tavolo e di
dover salutare quella che le era appena stata presentata come “Anice
Anderson”, giornalista per il Chicago Tribune. Vista da vicino
quella donna era ancora più bella. Gli occhi, di un azzurro intenso,
spiccavano intelligenti e in netto contrasto con la chioma nera come
l’ebano raccolta sulla nuca in un morbido chignon. La pelle, in
compenso, era bianchissima, e talmente perfetta da sembrare di
porcellana.
— Piacere
di conoscerti, Candice.
Pure
la voce era meravigliosa, calda e vellutata. Candy si riscosse, non
era proprio il caso di rimanere imbambolata ad ammirare tanta
bellezza ed eleganza.
— Il
piacere è mio, signorina Anderson — rispose, ricambiando la
stretta di mano. — Chiedo scusa per l’interruzione, è che non mi
aspettavo di trovare Albert proprio qui.
— In
pasticceria, intendi dire?
Albert
rise, e le scostò dal tavolo una poltroncina in velluto turchese per
farla accomodare.
— Sì.
Questo è un posto dove di solito è facile trovarci me, non lui!
Anice
sorrise alla spontaneità della ragazza, e bevve un sorso di
cioccolata calda dalla sua tazza fumante.
— Stavamo
accordandoci su un articolo che dovrebbe uscire la settimana prossima
— le spiegò Albert, e richiamò con un cenno della mano
l’attenzione del cameriere.
— Se
riuscirò a scucirti qualcosa di più di ciò che mi hai raccontato
finora — puntualizzò Anice, ammiccando complice verso Candy. —
Tu sei la sua figlia adottiva, giusto?
— No,
non esattamente — la contraddisse Candy, dopo aver ordinato a sua
volta una cioccolata calda con tanta panna sopra e una sostanziosa
fetta di torta alle nocciole.
— Non
ancora, almeno — puntualizzò Albert, e Candy lo fissò sbalordita.
— Ma questo discorso preferirei evitarlo, Anice, e di sicuro non
voglio che venga menzionato nell’articolo.
— Come
vuoi — assentì la donna, apparentemente disinteressata alla
questione. — Di cosa ti occupi, Candy?
— Intende
il lavoro? Sono un’infermiera.
La
donna alzò un sopracciglio.
— E
ti piace?
— Certamente.
Amo il mio lavoro! — affermò decisa e chiedendosi perché mai
avrebbe dovuto non piacerle, per poi ringraziare il cameriere che le
aveva appena deposto sul tavolo il suo pranzo alternativo.
— Lavori
qui a Chicago?
— No,
al villaggio dove sono nata, nella clinica del dottore che ha curato
Albert quando aveva perso la memoria.
— Avevi
perso la memoria? — la donna spostò velocemente lo sguardo su
Albert e la cioccolata sul piattino, incuriosita e allarmata.
— Per
un breve periodo, sì.
Breve
mica tanto pensò Candy, e si chiese perché Albert avesse mentito a
quella donna.
— E
lo hai curato tu? — incalzò Anice, tornando a fissare Candy. La
risposta però fu bloccata sul nascere dal diretto interessato alla
questione.
— Basta
così, Anice.
L’occhiata
che si scambiarono lasciò Candy di stucco. Nessuno aveva mai
guardato Albert in quel modo. Scorreva una conversazione muta tra
loro, dalla quale lei si sentiva totalmente esclusa.
— Voi…
ehm… vi conoscete da molto? — chiese infine, nel tentativo di
spezzare quella strana tensione e il silenzio che erano piombati tra
loro.
— Da
quando ha rivelato il suo nome al mondo — rispose Anice senza
guardarla, riportando l’attenzione sulla sua cioccolata. —
L’articolo che ha fatto lo scoop l’ho scritto io.
Non
moltissimo allora, stabilì Candy. Eppure…
Albert
ed Anice ripresero a discutere sull’articolo, più o meno un
resoconto dell’ultimo colpo messo a segno da Albert su una scalata
a un qualche titolo. Non vi prestò molta attenzione, catturata
com’era dall’osservare lo strano atteggiamento tra i due. Si
conoscevano bene, il distacco formale doveva essere solo di facciata.
E lei mostrava una confidenza nei confronti di Albert che Candy non
considerò affatto usuale. E lo toccava un po’ troppo spesso.
Si
prese tempo per studiarli con calma, tra un sorso e l’altro della
sua cioccolata. Avevano uno strano modo anche di parlare, che
mostrava allo stesso tempo confidenza e distacco. Come se ci fossero
dei buchi nella comunicazione, e lei cercasse di colmarli. Sembrava
incuriosita, e voler sapere. Forse era dovuto alla sua formazione da
giornalista, eppure non dava l’idea di conoscere Albert poi così
bene. Forse conosceva solo una parte di lui. Come era accaduto a lei,
d’altronde. E forse, anzi, senza forse, le accadeva ancora.
— Bene,
direi che per oggi possiamo concludere qui il nostro incontro, Anice.
La
voce di Albert la riscosse bruscamente dai suoi pensieri, e notò che
Anice aveva già iniziato a infilare i suoi appunti in una borsa
piuttosto capiente.
— Mi
ha fatto piacere fare la tua conoscenza, Candice. Mi piacerebbe
approfondirla. Magari a Samhain?
Candy
sussultò impercettibilmente. Dunque era invitata anche lei?
— Molto
volentieri signorina Anderson, anche a me ha fatto molto piacere
conoscerla e scambiare due chiacchiere con Lei.
Con
un’ultima occhiata ad Albert in un dialogo muto tra loro la donna
raccolse la sua borsa e abbandonò la sala e Candy posò la propria
tazza di cioccolata vuota sul piattino. Quando rialzò lo sguardo si
accorse che Albert la stava fissando divertito.
— Ho
detto qualcosa di sconveniente?
— No,
ma hai uno sbaffo di cioccolato sul labbro.
Glielo
tolse con il pollice, e lei si sentì morire dalla vergogna.
Perfetto, se voleva che lui la vedesse come un’adulta forse era
meglio fare più attenzione e non costringerlo a trattarla come una
bambina.
— Hai
ancora commissioni da fare? Hai pranzato, a proposito? Vuoi ordinare
ancora qualcosa?
— No
no… — si affrettò a interrompere quella sfilza di domande
ricordando d’un tratto la piccola bugia. — Sono a posto e le
commissioni le ho già terminate.
— Ti
fermi a casa, allora?
— Se
non è un disturbo.
Lui
sorrise. — Sai che non lo è.
— Tu
piuttosto, — cambiò discorso Candy, preferendo evitare di pensare
alla prozia Elroy. — devi tornare al lavoro?
— Sì,
l’idea era quella. Ma visto che l’intervista si è protratta un
po’ per le lunghe, e che tu sei qui, se non ti dispiace ti terrò
compagnia.
Un
sorriso radioso si allargò sul volto di Candy, ogni minuto trascorso
con Albert era un regalo meraviglioso e insperato che accoglieva con
gioia. Se solo pensava a quanto lo aveva cercato, aspettato nel corso
della sua vita! Solo che lui restava incomprensibile, ed era così
eccitata all’idea di poter trascorrere del tempo con lui che si
scordò completamente il motivo della sua improvvisata. Lo rammentò
di colpo mentre erano intenti a passeggiare nel parco, notando
quanto le piacesse il filo di barba che gli copriva il volto di
solito rasato con cura.
— Candy,
tutto bene? Ti sei azzittita di colpo! Ho detto qualcosa che non
dovevo?
— No,
no — si affrettò a rispondere, arrossendo per l’imbarazzo che le
aveva causato il corso preso dai suoi pensieri. — È solo che…
Le
scoccò un’occhiata curiosa con la coda dell’occhio, continuando
a passeggiare.
— Ecco,
mi chiedevo...la signorina Anderson è la tua fidanzata?
La
fissò sbalordito, prima di scoppiare in una sonora risata.
— Fidanzata?
E come sei giunta a questa conclusione, Candy?
— Sembra
che vi conosciate molto bene, e c’è una sorta di intimità tra
voi. Lei è molto bella.
La
scrutò con la coda dell’occhio, forse l’incontro fortuito con
Anice non si sarebbe rivelato poi così inopportuno.
— Sì,
è una bellissima donna. Ed è vero che c’è una sorta di intimità
tra noi. Ma non credo che lei voglia essere la mia fidanzata più di
quanto non lo voglia io.
Candy
corrugò la fronte. Non era molto chiara come risposta.
— Scusami,
forse non dovrei dirtelo, ma ho avuto l’impressione che lei
cercasse altre risposte da te, che non c’entravano nulla con
l’intervista che stavate concordando.
Albert
sorrise e la guardò interessato. Quando socchiudeva gli occhi in
quel modo a lei ricordava lo sguardo di un gatto.
— Lo
hai notato? Penso che siano molte le cose che lei vorrebbe sapere di
me. Ma ci sono cose che non posso e non voglio condividere con lei.
E con me? avrebbe
voluto chiedergli, ma si trattenne. — Peccato — disse invece. —
Formereste una bella coppia.
— Tu
trovi?
— Mi
sono chiesta spesso che tipo di donna avresti avuto al tuo fianco, un
giorno, e lei corrisponde benissimo all’immagine che mi ero fatta.
Albert
rimase di stucco, e
non fece nulla per mascherare il suo stupore. Si fermò.
— Hai
davvero immaginato la mia possibile fidanzata? E l’hai immaginata
come Anice?
Non
poteva crederci. Possibile che per tutto quel tempo lui avesse
davvero travisato tutto?
Candy
rifletteva invece su quante volte avesse immaginato la fidanzata di
Albert, e quanto quel pensiero le creasse una certa agitazione.
— Sì.
Sei importante per me, e desidero solo il meglio per la tua vita.
— Allora
non dovresti immaginarmi con Anice.
Si
sentì sollevata a quell’affermazione, e il cuore le si fece
improvvisamente leggero.
— Perdona
il mio egoismo, ma sono felice che non sia la tua fidanzata. Non sono
ancora pronta a perderti.
Lui
la guardò perplesso, sospirò e le indicò una panchina.
— Sediamoci
un momento, ti va?
Candy
annui, e prese posto accanto a lui, con la valigia ai suoi piedi.
Non c’era stato verso di portarla da sé, l’aveva trasportata lui
per tutto il tempo. Un uomo distinto in giacca e cravatta con al
seguito una valigia decorata con le fragole. Le venne da ridere.
— C’è
qualcosa che devi dirmi, Candy?
Quella
domanda a bruciapelo, con gli occhi incollati nei suoi, la prese
totalmente alla sprovvista.
— Perché
è invitata anche lei alla festa?
— Perché
è scozzese.
— Perché
vuoi che ci venga io?
— Perché
ti voglio al mio fianco.
Lo
aveva detto con un’aria così seria che il cuore iniziò a
batterle all’impazzata. Com’era intenso il suo sguardo, e
com’erano blu i suoi occhi!
— Tu
hai immaginato la mia fidanzata, ma che uomo immagini invece al tuo
fianco, Candy?
Lei
si schiarì la voce, doveva assolutamente trovare le parole giuste.
Il momento era arrivato.
— Non
ci ho mai pensato. Realmente, intendo. Io… non ho mai sognato un
ragazzo in particolare, mi sono sempre e solo innamorata. Come non lo
so, ma è successo.
Lui
allungò le gambe davanti a sé, pensieroso.
— Perché
hai così tanta paura di perdermi?
— Perché…
sei sempre stato parte della mia vita. Abbiamo convissuto, condiviso
tante cose… non so se un’altra persona sarebbe disposta ad
accettare tutto questo, e io lo so che sarebbe giusto lasciarti
andare, ma allo stesso tempo vorrei tenerti legato a me. È
egoistico, lo so, ma… ecco, non sono pronta. Non ancora.
Lui
le passò un braccio intorno alle spalle e l’attirò a sé. Con la
testa appoggiata sulla sua spalla si sentiva al caldo, e al sicuro
nel suo abbraccio.
— E
se fossi io a non volerti lasciar andare?
— Penso
che lo faresti solo perché sai che averti accanto mi rende felice.
— E
se ti dicessi che averti accanto rende felice me?
— In
quel caso sarei la persona più felice del mondo!
La
scostò leggermente da sé, per guardarla intensamente negli occhi,
e le scostò i capelli dal viso.
— Candy,
io…
— Albert
aspetta ancora a sposarti, ti prego! Lascia che io diventi prima del
tutto indipendente da te!
Sposarsi?
Lui stava per dirle che era innamorato di lei e lei pensava al
matrimonio con un’altra donna?
La
guardò frastornato, e si accorse che pure lei non scherzava. Ma che
diamine le passava per la testa, sul serio, non ci capiva più
niente!
— Ma
chi mai dovrei sposare Candy? Non sono nemmeno fidanzato!
Lei
tornò a posare la testa sulla sua spalla, delusa da se stessa.
Perché gli aveva detto quelle cose? Perché non riusciva ad essere
chiara e chiedergli una volta per tutte cosa provasse per lei? La
storia dell’adozione le pesava sul cuore come un macigno. Forse
Anice non era la sua fidanzata, ma un qualche cosa li legava di
sicuro, qualcosa dal quale lei era completamente tagliata fuori.
Forse davvero aveva bisogno di lei, ma perché la considerava alla
stregua di una sorella.
Quel
pensiero le calò di colpo un peso opprimente sul cuore. A lungo
aveva considerato Albert alla stregua di un fratello, e ora che aveva
realizzato che non era così, che l’affetto per un fratello, Tom ad
esempio, era molto diverso da ciò che la legava ad Albert, era lui a
considerarla tale. In fondo, le aveva chiesto di chiamarlo come
faceva Rosemary, no?
Che
stupida era stata. Si era illusa per tutto quel tempo, ed ora quella
consapevolezza le era piombata sulle spalle e pesava come un macigno,
e il petto le doleva come se fosse schiacciato da un bisonte dal peso
di una tonnellata. Le scese una lacrima che asciugò furtiva.
— Candy,
mi fai una promessa? — ruppe il silenzio Albert, dopo aver
riflettuto a lungo.
Annuì
con il capo, e articolò un velatissimo sì.
— Il
giorno in cui t’innamorerai di nuovo me lo dirai?
Aspettò
un poco a rispondere, perché lei, purtroppo, era già innamorata.
— Solo
se tu farai lo stesso con me.
Annuì
e Candy, a malincuore, si rese conto che in realtà nessuno dei due
aveva promesso.
**********
Candy
aveva avuto le risposte che cercava. Non esattamente quelle che si
aspettava, o aveva desiderato sentire, ma almeno una risposta l’aveva
avuta. Forse era stato tutto un abbaglio, e anche lei aveva dato ai
suoi sentimenti per lui un significato che forse non avevano. Forse
aveva confuso tutto ciò che provava per lui, l’immenso amore che
provava nei suoi confronti per tutto ciò che rappresentava e aveva
sempre rappresentato per lei, per innamoramento? Scoprire che Albert
era prima il prozio, poi il principe, l’aveva confusa e alterato la
percezione dei sui sentimenti? Probabile. Ma allora perché le faceva
così male?
Albert,
dal canto suo, non sapeva che pesci pigliare. Non riusciva più a
comprenderla, tutto in lei era sfuggente e contraddittorio. Lo
attirava a sé e lo respingeva, quello che aveva creduto fosse amore
nei suoi confronti forse alla fin fine non implicava il tipo di amore
che aveva creduto. E sperato. Forse continuava davvero a vederlo come
un fratello maggiore, e si era solo illuso. Possibile che l’amore
rendesse ciechi a tal punto?
Nessuno
dei due toccò più l’argomento. Trascorsero il fine settimana
ridendo e scherzando, e in quei momenti sembrava davvero che il tempo
non fosse mai passato dagli anni della convivenza alla Magnolia.
Eppure era trascorso, e quei giorni, probabilmente, non sarebbero
tornati mai più. Era un pensiero, quello, che lasciava sempre
addosso ad Albert un’indefinita malinconia, e la sensazione netta e
frustrante di avere a portata di mano quella felicità passata senza
riuscire in realtà mai a raggiungerla.
Stava
giusto ricordando i tempi della Magnolia quando qualcuno bussò
delicatamente alla porta della sua camera. Si scostò dalla
portafinestra aperta e invitò ad entrare.
Sorrise
di fronte all’espressione buffa dipinta sul volto sorridente e
leggermente abbronzato di Candy che aveva appena fatto capolino dalla
porta. La vita all’aria aperta e alla casa di Pony le faceva
davvero bene.
— Sono
venuta a provare la doccia. Posso vero?
Spostò
l’attenzione sugli asciugamani e il necessaire che la ragazza
portava tra le braccia e gli venne da ridere.
— Certamente.
Una promessa va rispettata!
Entrò
nella camera eccitatissima, non vedeva l’ora di provare quella
nuova invenzione dalla prima volta che Albert gliel’aveva nominata.
— Ti
lascio piena libertà di movimento. Prenditi pure tutto il tempo che
vuoi, io vado a portare avanti un lavoro nel mio studio, nel
frattempo.
Rimanere
lì in camera con la consapevolezza di lei nuda sotto la doccia era
fuori discussione, un tormento del quale avrebbe volentieri fatto a
meno. Alla Magnolia non era così, o meglio, non gli era pesato come
gli pesava ora. Cos’era cambiato? Lei, comprese. Il modo tutto
nuovo che aveva di rapportarsi a lui, e che lo faceva letteralmente
impazzire.
— Posso
davvero prendermi tutto il tempo che voglio?
L’espressione
eccitata sul suo volto lo fece ridere di gusto, e l’accompagnò
verso il bagno. Afferrò un asciugamano da una mensola e glielo
porse.
— Tieni,
questo è un po’ più grande di quello che ti sei portata.
Rimase
lì con l’asciugamano in mano, perché lei non lo aveva nemmeno
sentito. Era rimasta a bocca aperta a guardare affascinata la grande
doccia ricavata in un angolo del bagno, e totalmente aperta. Doveva
uscire di lì il più in fretta possibile. Candy nuda e sotto la
doccia era un pensiero che doveva assolutamente togliersi dalla
testa.
— Ok,
te lo lascio qui sullo sgabello — le disse ridendo. — Ora ti
lascio, goditi la tua doccia!
Candy
si riscosse e lo salutò con un sorriso radioso. Sì, era decisamente
il caso di uscire.
Rimasta
sola, Candy si preparò con cura per godersi al meglio quella nuova
esperienza. Dispiegò per bene l’asciugamano, posò la saponetta su
una piccola mensolina accanto alla manopola del rubinetto, si spogliò
con calma e aprì il getto dell’acqua, allungando tentennante una
mano per accertarsi della temperatura. Le uniche docce che avesse mai
fatto in vita sua erano state sotto una cascata, e la temperatura non
era mai stata delle più ottimali. Refrigerante era il termine più
gentile per descrivere la sensazione provata.
Che
meraviglia però! Sentire l’acqua scorrerle sulla pelle le dava una
sensazione di assoluto benessere. Sarebbe rimasta sotto quel getto
per ore. Chiuse gli occhi e si godette il potere rigenerante
dell’acqua, poi realizzò le immagini che aveva materializzato
dietro gli occhi chiusi e li spalancò spaventata, arrossendo per la
vergogna. Aveva immaginato Albert sotto quella stessa doccia: i
capelli bagnati che gli si incollavano al viso, le sue spalle larghe
, le gambe muscolose. Ma che diavolo stava facendo? No, no, no… non
andava affatto bene. Era sconveniente! Iniziò a insaponarsi con
foga, ma quelle immagini non volevano proprio uscirle dalla mente. Si
sfregò i capelli e chissà, forse in qualche modo sarebbe riuscita a
lavare via pure i pensieri! Con che coraggio lo avrebbe guardato in
volto, adesso? Oh mamma, doveva fare qualcosa. Si concentrò sul
profumo del sapone, un miscuglio di erbe e fiori di campo, e
visualizzò le colline intorno alla casa di Pony. E la casa di Pony.
E il principe in kilt. E sotto il kilt niente, perché aveva scoperto
che non si indossavano le mutande. Oh Dio… ci riprovò. Casa di
Pony, fiori, prati… altro che rilassante, quella doccia era
un’invenzione diabolica che portava i suoi pensieri totalmente alla
deriva!
Tornò
a insaponarsi per bene, si sciacquò, chiuse il rubinetto e si
avvolse l’asciugamano intorno al corpo, annodandolo stretto.
Tamponò un poco i capelli e uscì dal bagno, ma lo sguardo le cadde
sul letto. Si sedette sul bordo, allungò una mano verso le coperte e
infine affondò il volto nel cuscino, riconoscendo il suo odore.
— Oh
Albert…
Poi
si alzò di scatto, si rivestì in fretta e furia, recuperò tutti
gli articoli per la toilette e gli asciugamani usati e si precipitò
come una saetta fuori da quella stanza, con il volto acceso, la pelle
accaldata e la testa invasa da un turbinio di pensieri sconnessi.
Seduta
sul sedile posteriore dell’auto che la stava riportando alla casa
di Pony Candy pensò che alla fine di quei tre giorni trascorsi a
Chicago non aveva risolto nulla di nulla, e se ne tornava all’ovile
più confusa che mai. Non aveva ottenuto grandi risposte, se non la
conferma che Albert e quella donna, Anice, avevano una qualche
relazione. E lui continuava a rimanere un mistero indecifrabile. In
compenso, si era resa perfettamente conto che non era stata vittima
di alcun abbaglio: nessuna persona normale avrebbe fatto i pensieri
che aveva fatto lei su quello che considerava il proprio fratello.
Doveva farsene una ragione: era davvero, davvero innamorata di lui.
Dichiararsi apertamente però era fuori discussione. Non voleva
rovinare il rapporto tra loro, ed era sicura che se i suoi sentimenti
non fossero stati ricambiati nulla tra loro sarebbe mai potuto
tornare come prima. Che situazione incresciosa!
Aveva
davvero creduto che lui provasse qualcosa nei suoi confronti,
insomma, si era anche rivelato come principe, e invece… prima la
vuole adottare, poi lo scopre avere una relazione ambigua con
un’altra donna e infine non aveva recepito nulla dei suoi tentativi
di dichiarazione. Però aveva notato alcuni sguardi che era sicura
non fossero quelli che normalmente si riservano a una sorella. Oppure
soffriva di traveggole e aveva immaginato tutto. Alle volte capita
alle persone innamorate. Forse era stato quello? Esisteva un modo per
fargli capire chiaramente ciò che provava senza metterlo in una
situazione difficile e senza via d’uscita? Non era brava in queste
cose, troppo spontanea e sincera. Ma allora come uscirne? Come non
perdere Albert? Forse avrebbe dovuto entrare definitivamente
nell’ottica delle idee che un giorno, per forza di cose, il loro
rapporto sarebbe stato irrimediabilmente compromesso. Ma lei…
l’idea di perdere Albert era ogni volta un pugno nello stomaco che
le faceva un male cane. E il problema maggiore era che non sapeva
nemmeno con chi confidarsi, perché il suo unico confidente era
sempre stato solo lui. E la conosceva così bene che non poteva non
aver capito la sua situazione e i suoi sentimenti, quindi era ovvio
che non la volesse, non in quel senso almeno.
Un
incolmabile senso di vuoto le si allargò nel petto, talmente grande
che iniziò a temere potesse risucchiarla tutta dentro.
Un
mese. Un mese e lo avrebbe rivisto.
E
poi?
**********
Si svegliò di soprassalto, nel cuore
della notte. Accaldato, con il cuore in tumulto e tremendamente
eccitato. Il sogno era stato così vivido che gli sembrava fosse
tutto accaduto realmente. Ricordava ogni singolo particolare: sentiva
ancora il suo profumo di erba e di sole nelle narici, i suoi sussurri
nelle orecchie, la sua pelle morbida sotto le dita e il suo volto
eccitato lo vedeva ancora stagliarsi nettamente contro il buio del
soffitto.
Si alzò dal letto, infilò la
vestaglia adagiata sulla poltrona accanto e uscì sulla terrazza. Le
temperature si erano abbassate notevolmente negli ultimi giorni, in
fondo era ormai la fine di ottobre, ma non così abbassate da
riuscire a schiarirgli la mente e confortare la pelle accaldata. Non
aveva mai fumato in vita sua, ma se avesse avuto una sigaretta a
portata di mano, in quel momento, l’avrebbe accesa.
Non aveva mai fatto un sogno come
quello, prima. Non con lei, almeno, e la questione lo metteva a
disagio. Appoggiò le mani alla balaustra e le vide bianche, quasi
eteree sotto la luce bianca della luna. Pensò che era trascorso
davvero molto tempo dall’ultima volta che era stato con una donna,
ma anche volendo, sapeva che ora non gli sarebbe stato poi di molto
aiuto. Voleva lei, e ed era un desiderio così forte da fare male.
Essere innamorati era una bella sensazione, indubbiamente, ma
complicava enormemente le cose, almeno per lui, e almeno in quel
campo. Era sempre stato libero: di muoversi, pensare, agire. Se l’era
conquistata quella libertà e avervi rinunciato, per un bene
superiore, era stata una sua scelta, libera anche quella. Ma l’amore
ti lega a una persona, c’è poco da fare al riguardo, e lo aveva
compreso da tempo, ormai.
Il sogno tornò vivido nella sua
mente, quasi fosse un ricordo reale. E con il sogno si acuì
l’eccitazione. Sbuffò, e appoggiò i gomiti alla balaustra di
marmo. Nemmeno quella riusciva a trasmettergli refrigerio. Che cosa
gli stava succedendo? Non era mai stato un problema, prima. Era
precipitato tutto dopo la gita a Lakewood. Aveva creduto di essere
ricambiato nei sentimenti, e quella consapevolezza aveva rotto gli
argini. Il desiderio di lei si era fatto giorno dopo giorno, notte
dopo notte, sempre più insistente. Ma un sogno così...Se le avesse
detto quanto la desiderava l’avrebbe sicuramente spaventata. Non
voleva pensasse che il suo fosse solo desiderio fisico, un’esigenza
prettamente fisiologica. Che sì, lo era, ma non solo...voleva lei, e
la soddisfazione che cercava, l’urgenza che provava, solo lei
sarebbe stata in grado di alleviarla. Come non spaventarla, però,
come farle comprendere ciò che provava senza allontanarla da lui?
L’avrebbe aspettata, questo sì, non avrebbe mai fatto nulla per
arrecarle danno o dispiacere, ma… era una tortura! La fisicità che
tra loro non era mai stata un problema ora iniziava ad esserlo,
perché dubitava di riuscire ancora a lungo a starle accanto
reprimendo l’impulso di baciarla. E non era sicuro che sarebbe
riuscito a limitarsi ai baci. Certo, lo avrebbe fatto, ma ne sarebbe
uscito distrutto. Rise tra sé e sé. Era solo tremendamente
eccitato, l’indomani avrebbe ragionato con maggior lucidità. E
l’indomani lei sarebbe arrivata a Chicago per la festa di Samhain.
Chissà lei, in quella sua testolina
divenuta inaccessibile a lui, che cosa pensava. Ci aveva provato a
dichiararsi, ma era sempre riuscita a interrompere il momento, e a
fargli sorgere mille domande sull’opportunità di quella
dichiarazione. Eppure, doveva farlo. Per se stesso, per lei, per
quella situazione che stava diventando ingestibile. A discapito delle
parole, non poteva aver frainteso determinati sguardi e imbarazzi.
Chissà se anche lei aveva iniziato a pensare a lui in quei termini,
se anche lei si svegliava nel cuore della notte dopo aver sognato di
fare l’amore con lui. Chissà se anche lei, poi… Aveva bisogno di
una doccia fredda, subito! Cosa diamine gli passava per la testa,
Candy era una ragazza pura e innocente come poche. Anzi, nessuna. Non
era un uomo, e non era come lui. Si vergognò di quei pensieri,
eppure non riusciva a toglierseli dalla testa. Rientrò in camera,
sfilò la vestaglia dalle spalle e completamente nudo si avviò al
bagno. S’infilò sotto la doccia che era una bella invenzione, sì,
ma l’acqua non era fredda quanto avrebbe voluto, e offrì il viso a
quella cascata che sperava riuscisse a lavargli via insieme al sonno
anche quei pensieri assillanti. Dio quanto la amava! E quanto la
desiderava! Se solo lo avesse immaginato, o avesse sospettato i
pensieri che in quel momento gli vorticavano nella testa sarebbe
fuggita lontano da lui a gambe levate!
Doveva darsi una calmata. Nemmeno a
quindici anni si era sentito così eccitato, impotente e frustrato
come si sentiva in quel momento. Gli venne da ridere e da piangere
allo stesso tempo, e con la coda dell’occhio intravvide qualcosa
che attirò la sua attenzione. Prese il pezzo di sapone tra le mani e
ne annusò il profumo. Era il sapone di Candy, lo aveva lasciato lì
l’ultima volta che era stata a Chicago e aveva voluto provare la
doccia. Chissà se lo aveva davvero dimenticato o lo aveva lasciato
lì apposta. Non se l’era mai chiesto prima. In quel momento, però,
respirare quel profumo che tanto gli ricordava lei gli acuì il
dolore e il desiderio. Gli piaceva pensare che l’avesse lasciato lì
apposta per lui, e se non si fosse trattato di Candy, ci avrebbe
anche creduto. Chiuse gli occhi.
Si vergognava dei suoi pensieri ma non
poteva farci niente. La desiderava, disperatamente.
**********
Arrivò a Chicago il giorno prima di
Samhain, un trenta di ottobre freddo e nuvoloso. Il mese era
trascorso in fretta, di Albert non si era vista nemmeno l’ombra e
lei aveva cercato intensamente e in tutti i modi di non pensarci. Ora
però, lo sapeva, era giunta per lei la resa dei conti.
La villa era completamente addobbata a
festa: bandiere della Scozia con la croce bianca su campo azzurro
spiccavano ovunque, insieme a cimeli, armi, spade e tartan verdi e
neri. L’effetto era sontuoso e barbaro allo stesso modo.
— No
— rise lui, riponendo sul suo appoggio la spada che le stava
mostrando. — È un abbigliamento tipico maschile. Puoi indossare
l’abito che preferisci.
— Peccato.
Posso usare però un tartan con i colori della tua famiglia?
— Certamente.
Sarebbe un onore per me. Vieni! — le disse, invitandola a seguirlo
dopo averla presa per mano. — Ne ho fatto confezionare uno apposta
per te.
Giunti
nella sua camera estrasse dall’armadio un tessuto ripiegato con
cura e lo dispiegò di fronte a lei.
— Puoi
indossarlo come preferisci, ma andrebbe portato così — le spiegò,
avvolgendoglielo intorno alla vita e alle spalle— E qui andrebbe
fermato con una spilla.
Teneva
insieme i lembi sulla spalla sinistra di lei, e la guardò,
attendendo una sua risposta. Ma era troppo concentrata a ricordare il
modo in cui l’aveva avvolta, e lui sorrise.
— Posso
usare la mia?
— Ci
rimarrei male se non lo facessi.
— Oh
Albert! — gli rispose riconoscente, circondandogli il collo con le
braccia e stringendosi a lui. — La indosserò con estremo orgoglio.
Grazie!
Ricambiò
il suo abbraccio imbarazzato. Per quanto ci provasse, per quanto lo
imbarazzasse tremendamente, non riusciva proprio a togliersi il sogno
della notte precedente dalla testa. E lei non lo aiutava di certo.
Un
rimestio al piano inferiore e voci conosciute attirarono d’un
tratto l’attenzione di Candy.
— Annie!
Archie! Sono arrivati!
Lo
sguardo le si era illuminato di gioia e Albert sorrise sciogliendosi
dal suo abbraccio.
— Ti
dispiace se…
— No
Candy, scendo anch’io — le rispose divertito. Quell’interruzione
era stata davvero provvidenziale. La seguì con lo sguardo correre
lungo le scale e saltare al collo di Annie tra grida di gioia e
risate, e pensò che in quella casa la presenza di una persona come
Candy sarebbe stata davvero una benedizione. Dio solo sapeva quanto
quelle mura avessero bisogno di allegria, risate e aria nuova.
— Candy,
che ne dici di preparare qualche zucca come facevamo da bambine? Poi
ci metteremo dentro una candela, così i morti troveranno la strada
di casa.
— La
Prozia non si arrabbierà?
La
proposta di Annie l’aveva fatta sorridere, ma non era sicura che in
quella casa le zucche intagliate sarebbero state viste di buon
occhio.
— No,
è una tradizione. Albert ne ha fatte arrivare un bel po’ tra cui
scegliere. Vieni con me!
La
trascinò sul retro della villa, dove Archie era già intento a
svuotare le sue zucche per Stair ed Anthony.
— Ecco
qui. Io ne ho già finita una. Come vi sembra? — chiese orgoglioso,
alzando una delle sue creazioni per mostrarla alle ragazze.
— Sufficientemente
orrenda! — asserì Candy, soppesandola tra le mani. — Dobbiamo
farne una per ogni finestra?
— Se
intendi finire per il prossimo Sahmain, accomodati!
Annie
rise e Candy scelse la zucca più grande e tonda che riuscì a
trovare. Poi ne scelse altre due, una buffa, l’altra con un tocco
di eleganza nell’arricciarsi del picciolo. Tre zucche voleva
intagliare, tre persone avrebbe voluto che tornassero in quella casa,
quella notte. Poi ci pensò su, e ne scelse altre due che parevano
fare proprio al caso suo. Cinque zucche da spolpare e intagliare non
era un lavoro di poco conto, ma con buona volontà e tanta lena ci
sarebbe riuscita. E forse il lavoro l’avrebbe anche distratta un
po’.
Chiacchierarono
e lavorarono, lavorarono e chiacchierarono tutto il pomeriggio.
Avevano tante cose da raccontarsi, soprattutto Archie ed Annie
sembrava non avessero mai abbastanza aneddoti di cui renderla
partecipe. La loro vita era davvero piena, tra studio, lavoro in
famiglia per Archie e vita sociale, e Candy si ritrovò a invidiarli
un poco. La sua vita tranquilla tra casa di Pony e Clinica Felice le
piaceva, ma ogni tanto, come in quei momenti, veniva assalita da una
strana sorta di nostalgia per il tempo passato trascorso insieme ai
suoi amici. Patty non era potuta venire, purtroppo, perché impegnata
a preparare un paio di esami piuttosto corposi. Era tanto che non la
vedeva, e decise che al più presto, una volta passata la sessione
d’esame, si sarebbe organizzata per andare a farle visita. Peccato
non avesse scelto di studiare a Chicago!
La
voce di George la distrasse dai suoi pensieri. Albert aveva richiesto
la presenza di Archie, e il ragazzo dopo un occhiolino alle sue dame
e un aggiustata al ciuffo ricaduto sugli occhi, lo seguì senza
indugio.
— Adesso
che siamo sole vuoi dirmi cos’hai, Candy?
Annie
aveva sussurrato quelle parole senza interrompere il suo lavoro, e
Candy incise più a fondo con il coltello la polpa che intendeva
asportare.
— Sono
un po’ preoccupata per la festa di stasera.
Annie
la guardò dubbiosa.
— È
per questo che hai stampato in faccia il sorriso del “va tutto bene
anche se il mondo va a rotoli”?
Non
poteva mentire ad Annie, lo sapeva. Era sua sorella, e la conosceva
come la sue tasche. Ma non poteva renderla partecipe del suo
problema. Non prima di averlo fatto con Albert.
— Non
va tutto a rotoli. Solo un po’. Ma sono diventata un esperta ad
aggiustarlo, sai?
Sollevò
in aria il suo coltellino da scavo ed Annie si ritrasse
istintivamente di lato, spaventata, poi si guardarono negli occhi e
scoppiarono a ridere complici.
— Va
bene, ho capito, non me lo vuoi dire. Puoi dirmi almeno perché
cinque zucche?
— Per
Anthony, Stair, Rosemary e i genitori di Albert.
Annie
la osservò scavare con foga nella sua zucca, e un barlume di
comprensione le si accese nello sguardo.
— È
un pensiero gentile. Albert lo apprezzerà molto.
— Lo
spero Annie — rispose, concentrata nel suo lavoro. — Lo spero
davvero tanto.
Una
volta finito di intagliare le sue zucche raccolse insieme ad Annie la
bacinella con la polpa da portare alla cuoca e vi posò sopra le
zucche intagliate. Si avviò di gran lena verso le cucine, aiutata
dall’amica, poi si diresse nel salone della festa, dove era
intenzionata a scegliere le finestre migliori per posizionarvi le sue
zucche. Quando l’ultima candela fu inserita all’interno
dell’ultima zucca posta sul davanzale della finestra prescelta e
gli stoppini furono tutti accesi, si lasciò sfuggire un sospiro
malinconico. Rimase qualche minuto a osservare il suo lavoro, e pensò
che non aveva mai preso così seriamente quella ricorrenza come stava
facendo quella sera. Il sole era tramontato ormai, le candele
all’interno delle zucche erano state accese, i morti avrebbero
ritrovato la loro casa, insieme al cibo e al ristoro. Spinta da un
pensiero irrazionale si avvicinò a una delle grandi finestre per
cercare nel buio la figura di un fantasma conosciuto.
— Archie
mi ha detto che hai intagliato cinque zucche. È un pensiero molto
gentile, ti ringrazio.
La
voce calda e gentile di Albert alle sue spalle la fece sussultare.
— Ero
così assorta che non ti ho nemmeno sentito arrivare. Le ho scelte
con cura, sai?
— Lo
so. Le ho riconosciute senza nemmeno sapere che le avessi intagliate
tu. Quella di Anthony è la più grande, quella di Stair la più
buffa, quella di Rosemary la più elegante. E ti ringrazio per aver
unito tra loro quelle dei miei genitori.
Candy
sorrise leggermente imbarazzata. Aveva davvero messo tutto il cuore
nell’intagliare quelle zucche, e il suo desiderio era tanto
irrazionale quanto sincero. Tornò a posare lo sguardo nel buio del
parco, oltre la finestra, e quando parlò la sua voce fu un sussurro
appena percettibile.
— Tu
pensi che verranno? Riconosceranno le zucche che ho scelto per loro a
indicargli la via?
Sentì
la mano di lui posarsi sul suo fianco e attirarla a sé per
abbracciarla stretta, e il suo respiro tra i capelli.
— Sì
Candy. Sono sicuro che loro la strada l’abbiano trovata nel momento
stesso in cui tu hai acceso quelle candele, e che siano già qui.
Le
venne da piangere per quella sua gentilezza, e non si sentì più
così sciocca nell’aver voluto credere a tutti i costi in quella
fiaba. Lo ringraziò e comprese che lui aveva capito che lo stava
facendo dal profondo del cuore.
— Puoi
chiedere ai servitori di assicurarsi che le candele siano sempre
accese all’interno delle zucche?
— Certo
Candy. Dirò loro di fare particolare attenzione a quelle presenti in
questa sala.
Le
fece l’occhiolino e lei sorrise di rimando, riconoscente.
— Però
ora è meglio se vai a prepararti per la festa. Tra poco arriveranno
i domestici per gli ultimi ritocchi, il tempo stringe!
La
festa, se ne era quasi dimenticata. Annie aveva promesso che le
avrebbe acconciato i capelli, e lei doveva ancora lavarli. Salutò
Albert in fretta e furia e si precipitò su per le scale a cercare
l’amica. Era in ritardo spaventoso, accidenti a lei!
**********
La
festa era davvero una meraviglia. Gli invitati erano talmente tanti
che ne aveva perso il conto, per non parlare dei loro nomi. Erano
tutti americani di origine scozzese, e molto legati alle tradizioni,
a quanto sembrava. Gli uomini indossavano tutti i kilt, e lei cercò
di non pensare al fatto che sotto non indossassero le mutande. Ogni
volta che faceva quel pensiero scoppiava a ridere, e non era molto
ben educato. Anche Albert aveva indossato il kilt, e le era
impossibile non rivedere in lui il suo principe della collina. Ogni
volta che posava lo sguardo su di lui avvertiva un vuoto nello
stomaco e un tuffo al cuore. E aveva ragione: suonava la cornamusa
meglio di chiunque altro lì presente. La sua musica era calda,
personale, avvolgente. Aveva scambiato solo poche parole con lui, e
più che altro per le presentazioni. Ogni volta che ne incrociava lo
sguardo, però, i suoi occhi riflettevano una luce diversa, che le
faceva sobbalzare il cuore. Il principe nei suoi ricordi era giovane,
bello, solare. Questo che aveva dinnanzi agli occhi era un uomo
fatto, ma altrettanto bello, e altrettanto solare. Le sue spalle
erano più ampie, la pelle del suo viso più ruvida,le mani grandi,
forti e calde. Conosceva bene il loro calore, e le mancava
terribilmente.
Doveva
riscuotersi, e pensare ad altro. Non pensava che avrebbe mai potuto
dirlo, ma si sentiva perfettamente a suo agio. La compagnia di Annie
e Archie era preziosa e la prozia non l’aveva considerata più di
tanto, il che era una gran fortuna. E poi si stava divertendo un
mondo, gli inviti a ballare erano continui e i suoi cavalieri
piuttosto simpatici. Amava chiacchierare e a quelle persone, a quanto
sembrava, piacevano pure le sue chiacchiere.
Al
centro del parco era stato allestito un grande falò, e le avevano
detto che gli invitati avrebbero portato a casa una lanterna accesa
con quel fuoco, come fosse una sorta di benedizione. Ne voleva una
anche lei, da portare con sé alla casa di Pony. La chiese ad Albert,
e scoprì che lui aveva già preparato una piccola lanterna apposta
per lei. Non ci pensò due volte: si avvicinò al grande falò e rubò
una fiamma guizzante per accendere il suo stoppino. Poi, contenta
come una bambina, corse a portarla al sicuro nella sua camera da
letto, sotto lo sguardo divertito e struggente di Albert.
Fu
nel momento in cui si avvicinò al buffet che la sua allegria si
tramutò in qualcosa di decisamente inaspettato.
— Ciao
Candice! — la salutò una voce morbida e familiare. —
Sono
Anice. Ti ricordi di me?
E
come dimenticarla? Quella sera, poi, era più splendida che mai.
— Buonasera
signorina Anderson. Certo che mi ricordo di lei!
— Bella
festa, non è vero? — constatò, prendendo dal vassoio alcuni
pasticcini per deporli su un piattino che teneva in mano. — Tu però
non sei scozzese. Non ti ho mai vista a prima a questo raduno. Sei
qui in qualità di…
— Non
lo so nemmeno io, a dire il vero. In qualità di ex figlia adottiva,
immagino.
La
donna mascherò una risatina e le scoccò uno sguardo sornione.
— Già,
capire Albert non è impresa da poco. Dopo tutto questo tempo non so
ancora niente di lui.
— Capire
Albert è del tutto impossibile — precisò, e su quel terreno si
sentiva molto ben ferrata. — E quando pensi di esserci riuscita
lui ti sbaraglia tutte le carte e comprendi che in realtà non avevi
compreso un bel niente. Ma è una persona speciale e non esiste un
altro uomo come lui, al mondo.
— Si
direbbe quasi che tu ne sia innamorata.
Candy
avvampò, e infilò un pasticcino in bocca per mascherare
l’imbarazzo.
— Gli
voglio molto bene — spiegò, una volta assorbito il colpo. — Lui
ha fatto moltissimo per me e gli sarò riconoscente a vita.
— Ho
l’impressione che non sia la riconoscenza che vuole da te. Come non
la cerca in me, d’altronde.
Candy
la fissò confusa. Si conoscevano appena e le parlava in quel modo?
— Porti
molto bene quel tartan, Candice. E anche l’abito ti sta d’incanto
— si affrettò a cambiare argomento Anice. — Vedo che indossi la
spilla degli Ardlay.
— Sì
— rispose, portando istintivamente una mano a stringere la spilla
che aveva usato per fermare il tartan. — L’acconciatura invece è
tutta merito della mia amica Annie.
— La
fidanzata di Archibald, giusto? È una ragazza molto a modo, ed
elegante.
Anche
se non avrebbe saputo dire perché, il complimento alla sua amica le
risuonò come un appunto per se stessa. Ma forse esagerava, ed era
lei ad essere particolarmente suscettibile.
— La
ringrazio a nome suo, e le riferirò sicuramente le sue gentili
parole.
La
donna annuì, senza smettere di studiarla. E sembrava pure divertita!
— Mi
scusi signorina Anderson, ma cosa intendeva prima con le parole :
“non è la gratitudine che cerca in Lei”?
La
donna rise piano, e portò un bicchiere alle labbra.
— Mettiamola
così: non è la virtù che gli interessa di me, come non è il suo
essere speciale che interessa a me di lui. Tanto ci basta.
Candy
stralunò gli occhi, e la donna le fece un occhiolino che la lasciò
ancora più basita. Le venne istintivo portare il suo calice di
champagne alle labbra e lo trangugiò tutto d’un fiato. Un uomo
richiamò l’attenzione di Anice, e Candy pensò bene di sfruttare
l’occasione e sgattaiolare furtivamente in un angolo, per
riprendersi dalla sorpresa e assimilare per bene l’informazione
appena ricevuta. Sì, era vero, aveva immaginato qualcosa del genere
e ci era rimasta anche piuttosto male, però averne conferma era
tutta un’altra faccenda! Stava pur sempre parlando di Albert e…
lei non lo aveva mai immaginato in situazioni simili. Però era anche
vero che era un uomo di trent’anni, giovane e bello. Era stata un
po’ ingenua, certo, solo che… era Albert!
Aveva
bisogno di prendere un po’ d’aria, stare un attimo da sola e
assorbire il colpo. Poteva aver capito male? No, era ingenua sì, ma
non fino a quel punto! Afferrò un altro calice di spumante e si
avviò verso la terrazza. L’aria era fresca, ma le persone riunite
nel salone scaldavano a sufficienza anche l’ambiente adiacente alla
sala. Si sedette su una poltroncina in disparte, nascosta da una
pianta, e sorseggiò con calma il vino. Perché Albert l’aveva
voluta lì? Non gliel’aveva ancora detto. Perché lei non aveva
avuto il coraggio di chiederglielo? Voleva forse che si rendesse
conto da sola di come stavano le cose? Aveva capito che era
innamorata di lui e voleva farle capire che tra loro non c’era
storia mettendola di fronte all’evidenza? Forse non voleva metterla
in imbarazzo con un rifiuto necessario e dovuto, dato che la
considerava alla stregua di una sorella, e pensava che così avrebbe
accettato la proposta di un’adozione in piena regola?
Sfiorò
la spilla e avvertì un enorme vuoto allargarsi nel petto. Di nuovo
quella sensazione di abbandono e impotenza. E un dolore sordo, che le
annodava lo stomaco e saliva a serrarle la gola, che aveva tanto
sperato di non provare più. Cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Si
sentiva imprigionata in una gabbia dalle sbarre troppo strette per
tentare qualunque fuga. Un uccello al quale avevano tarpato le ali, e
che moriva dalla voglia di volare.
Doveva
allontanarsi da lui. Doveva farlo. Per lui, per se stessa, per loro.
Quando sarebbe tornata ad essere la Candy di sempre forse avrebbe
anche potuto riavvicinarlo, anche perché le era davvero difficile
immaginare una vita senza Albert. Ma per il momento… doveva
pensare a leccarsi le ferite, e a guarire. Ce l’aveva sempre fatta,
in fondo, ci sarebbe riuscita anche questa volta. Però…
Scacciò
il pensiero che le era affiorato alla mente, e si alzò dal suo
rifugio di fortuna. C’era una festa in corso, una bellissima festa,
era stata invitata e voleva godersela. Almeno quell’ultima festa
voleva godersela, senza pensare a niente. E poi c’erano Annie.
Archie… i Lagan, almeno, non erano venuti e Miami per fortuna non
era poi così vicina. Rientrò nel salone e accettò un ballo dietro
l’altro, un invito dopo l’altro, e si rese conto, confusamente,
di avere risposto di sì alla richiesta di corteggiamento da parte di
un certo Connor, dagli occhi azzurri, i capelli rossi e la parlantina
facile. Era stata Annie a farglielo notare, chiedendole se per caso
non avesse bevuto un po’ troppo.
In
realtà aveva risposto senza aver nemmeno ascoltato la domanda. Non
voleva pensare, né riflettere. Voleva solo ridere, ridere e ballare.
**********
Albert
si avvicinò alla grande vetrata del suo suo studio personale, e
fissò lo sguardo nel buio oltre il parco illuminato a festa della
villa. Gli ospiti non se ne sarebbero andati prima della mezzanotte,
e solo perché il giorno seguente sarebbe stato dedicato ai defunti,
e andava rispettato. Sperò che Annie fosse riuscita a comunicare il
messaggio a Candy, visto che per lui non c’era stato modo di
avvicinarla, dopo averla vista parlare con Anice.
Il
grande falò acceso sul selciato di fronte alla villa ebbe un guizzo
che catturò la sua attenzione, e in quel momento sentì bussare
alla porta.
— Avanti.
— Annie
mi ha detto che mi avresti aspettata qui, e che devi parlarmi.
— Sì
Candy, accomodati per favore.
Nonostante
tutto, le sorrise.
Lei
richiuse piano l’uscio e leggermente imbarazzata per quanto aveva
sentito prese posto sul divano. Se voleva mantenere le distanze, era
meglio iniziare a farlo da subito.
— Connor
mi ha chiesto il permesso di corteggiarti, dicendo che tu avevi
accettato.
Lo
fissò raggelata, e lui aggrottò le sopracciglia. — Non è ciò
che è successo?
— E
tu cosa gli hai risposto? — gli chiese invece, realizzando solo in
quel momento quel che aveva fatto.
— Che
la decisione è tua, e a me non deve chiedere nulla.
Candy
sospirò sollevata. Sul momento, poi la sua espressione si fece
allarmata.
— Ho
risposto senza nemmeno ascoltare la domanda, Albert. Sono stata
sciocca e superficiale.
— Quindi
non t’interessa?
— Assolutamente
no! — affermò quasi offesa dal fatto che lui potesse solo aver
pensato una cosa del genere. — Avevo solo voglia di ballare e
divertirmi, non certo di mettermi ad amoreggiare con il primo
sconosciuto che mi fa la corte!
Albert
sorrise, e inclinò un poco la testa di lato per osservarla.
— Sono
sollevato. Però è tutta la sera che mi sfuggi, Candy. Non abbiamo
ballato insieme nemmeno una volta.
— Tu
non me l’hai mai chiesto!
— Non
mi hai dato nemmeno l’occasione di chiedertelo.
Era
vero, lo sapeva. Lo aveva evitato consapevolmente. Abbassò lo
sguardo, per poi stringersi un poco di più nel plaid.
— Hai
freddo? — le chiese premuroso, e gettò un paio di ciocchi di legno
nel camino acceso.
— Un
po’, ma solo perché vengo dal caldo della sala.
— Candy…
— lasciò in sospeso lui, ancora accovacciato a smuovere le braci.
— Il tuo atteggiamento nei miei confronti è cambiato in seguito
allo scambio che hai avuto con Anice. Non vorrei sembrarti
indiscreto, ma posso chiederti cosa ti ha detto per turbarti in quel
modo?
Non
la guardò mentre le pose quella domanda, e lei si prese tempo per
osservarlo alla luce riflessa del fuoco. Indossava pure il kilt e in
quel momento il ricordo del principe si fece così vivo in lei da
farle male.
Albert
si rimise in piedi e si voltò a guardarla. Nel riflesso delle fiamme
i suoi capelli avevano preso una sfumatura rossastra, e i suoi occhi
erano più azzurri che mai.
— Che
avete una relazione… di sesso. Credo.
La
fissò senza parole. Non avrebbe saputo dire se più per la libertà
che si era presa Anice o per la tranquillità con cui Candy aveva
pronunciato quella frase.
— Albert
a me non importa ciò che fai della tua vita, sei un uomo, sei adulto
e io non ho alcun diritto di sapere certe cose. Solo che ce n’è
una che vorrei chiederti.
Ancora
frastornato per la piega inaspettata presa dalla conversazione prese
posto sulla poltrona accanto al camino e la fissò intensamente.
— Va
bene, ti ascolto — disse semplicemente, talmente preso in
contropiede da non riuscire nemmeno a sentirsi in imbarazzo.
— Io
e te ci conosciamo da tanto — attaccò Candy, stringendosi nel
plaid. — Abbiamo vissuto insieme, ti ho confidato ogni cosa, credo
che tu sia le persona che mi conosce meglio al mondo e vorrei tanto
poter dire lo stesso di te, ma non ne sono affatto sicura. Forse
quello che ti conosce meglio è George, e dovrei chiedere a lui però…
ecco...— serrò le mani intorno ai lembi del tessuto, e cercò le
parole giuste da dire. Lo guardò ma lui non disse niente, ricambiò
semplicemente il suo sguardo in attesa che continuasse.
— Noi
abbiamo un rapporto speciale, giusto?
Lui
annuì con il capo, chiedendosi dove mai intendesse ad andare a
parare.
— Io
con te sto bene, mi sento a mio agio, mi conosci come le tue tasche.
— Candy
puoi arrivare al punto, per cortesia?
Sussultò
leggermente, e annuì con il capo.
— Vorrei
che la mia prima volta fosse con te.
Rimase
impietrito, poi sbatté più volte le ciglia, confuso.
— Scusa?
— Intendo
il sesso. Vorrei che la mia prima volta fosse con te. Se non ti crea
problemi.
Albert
si schiarì la voce e distolse velocemente lo sguardo, imbarazzato e
disorientato, non ancora del tutto convinto di aver capito giusto.
— Candy…
forse hai bevuto un po’ troppo champagne questa sera.
— Sto
benissimo, non sono ubriaca e so quel che dico — rispose, anche se
non del tutto convinta nemmeno lei. Non sapeva esattamente quando
avesse preso quella decisione, forse lo covava nel cuore da tanto, ma
era quello che voleva. Perché lo amava.
— Non
puoi chiedermi una cosa del genere, Candy!
— Con
Anice non ti fai problemi.
— Tu
non sei Anice.
Le
lanciò uno sguardo che lei non comprese, ma non era intenzionata a
lasciar cadere il discorso.
— Sarebbe
solo per una volta, e per me importante. Non riusciresti proprio a
farlo con me?
Albert
aprì la bocca per rispondere ma le parole gli morirono sulle labbra
e scosse la testa, incredulo. Era surreale!
— Certo
che ci riuscirei ma non voglio! Tu...non ti rendi conto di quello che
mi stai chiedendo. Non sei in te. Per favore, Candy…
— Ti
ripeto che non sono ubriaca. Anche se adesso mi sento imbarazzata
anch’io. Però non capisco… perché con Anice sì e con me no?
Si
passò una mano tra i capelli, poi la fissò serio qualche istante,
non riuscendo a trovare le parole più adatte per districarsi da
quella situazione.
— Con
Anice non è una relazione fissa. È accaduto qualche volta,
sicuramente meno di quelle che immagini tu. Ed entrambi eravamo
perfettamente consci di ciò che volevamo dall’altro e perché. Non
c’era alcuna implicazione sentimentale, lavorativa o altro.
Continuò
a fissarla intensamente negli occhi, e vi lesse delusione, e
tristezza.
— Era
solo sesso, Candy.
— È
quello che ti ho chiesto io.
Albert
si pinzò la base del naso tra due dita, si sentiva incompreso,
esausto, e in croce. La desiderava, la desiderava profondamente, lei
gli si era offerta ed era costretto a dirle di no. Il ricordo del
sogno della notte precedente gli si materializzò vivido dietro gli
occhi chiusi, e lo scacciò con forza. Sembrava davvero uno scherzo
di cattivo gusto. In fondo, era pur sempre Halloween.
— Non
potrei mai fare solo sesso con te, Candy — sussurrò a fior di
labbra.
— Nemmeno
se te lo chiedo io? Forse è il problema è che… non ti piaccio
abbastanza? Fisicamente intendo. Non sono bella lo so e…
— Cristo
Santo Candy! — sbottò all’improvviso, scattando in piedi. —
Chiunque ti desidererebbe, direi che questa sera hai avuto prove a
sufficienza al riguardo!”
Era
la prima volta che lo sentiva imprecare, e sussultò dalla sorpresa.
Si stava rendendo ridicola con la sua insistenza, lo aveva
praticamente pregato di fare sesso con lei e se ne vergognò
immensamente. Cosa le stava succedendo? Non erano da lei un
atteggiamento e un comportamento simili!
Albert
si avvicinò alla portafinestra e nel riflesso del vetro, nonostante
le desse le spalle, lo vide serrare la mascella.
— È
il sesso che vuoi?
— Mi
renderebbe felice.
Sbuffò.
— Non
era questo che intendevo quando ho detto che anche in futuro avrei
fatto in modo di trovare la tua felicità.
Si
avvicinò al divano e rimase in piedi di fronte a lei. Non gli aveva
mai visto quello sguardo. Sembrava ferito, e arrabbiato.
— Alzati
per favore.
Quando
fu in piedi le alzò il volto con le dita e la obbligò a guardarlo
negli occhi. Sembrava determinata e impaurita al tempo stesso, e
scosse la testa.
— Accetti
la mia proposta? — gli chiese in un soffio.
— No.
Candy
si sentì morire. L’unica cosa che le rimaneva da fare per
salvaguardare quel poco di dignità che le era rimasta era voltarsi e
fuggire il più velocemente possibile lontano da quella stanza.
Eppure, non riusciva a muovere un passo. Si sentiva incatenata al suo
sguardo.
Quando
lo vide chinare il viso sul suo il respiro le si fermò e la vista le
si fece sfuocata.
.
La reazione di lei fu esattamente quella che si era aspettato. Era
rimasta immobile come una statua di marmo, con le labbra serrate e
altrettanto fredde. Indugiò qualche istante, poi si ritrasse e fissò
gli occhi nei suoi.
— Non
riesci nemmeno a baciarmi, Candy — sussurrò a fior di labbra.
E
in quel momento lei realizzò. Sotto shock e con le guance in fiamme
corse alla porta come una furia, la spalancò e fuggì dallo studio e
da Albert come avesse il diavolo alle costole. Ma sapeva che era solo
dal suo profondo imbarazzo e dalla sua ancor più profonda delusione,
insieme al biasimo per se stessa, che stava fuggendo spaventata.
Rimasto
solo Albert si avvicinò al camino e ravvivò velocemente le braci,
assorto e con la mente in fermento. Sarebbe dovuto tornare alla festa
ma aveva bisogno di schiarirsi le idee, e uscì sulla terrazza
affacciata sul cortile anteriore della villa. Si sedette sul largo
parapetto con la schiena appoggiata al muro e un piede a terra a
mantenere l’equilibrio, e per un istante tornò indietro nel tempo.
Non gli avevano mai permesso di sedersi in quel modo quando era
piccolo, ma aveva sempre amato farlo, sprezzante del pericolo. Gli
aveva sempre dato una leggera sensazione di libertà, di controllo
sulla sua vita. Una folata di vento gli fece svolazzare il plaid a
scacchi verdi e neri, e respirò a fondo l’odore umido di terra e
foglie che aveva portato con sé. La proposta di Candy continuava a
risuonargli nelle orecchie, e il sogno della notte precedente non
voleva saperne di lasciare la sua mente. Se solo non ne fosse stato
innamorato dirle di no sarebbe stato molto più semplice. Se pensava
che il massimo della vendetta per lei era stato chiamarlo prozio non
immaginava nemmeno quale tortura gli avesse inflitto quella sera.
Cosa diamine era saltato in mente ad Anice per andarle a dire una
cosa simile? Candy che parlava di sesso, poi, come se nulla fosse.
Come se per lui fosse solo un gioco, e non significasse nulla.
“Vorrei
che la mia prima volta fosse con te.”
“Avrei
preferito dicessi l’ultima.” Gli era rimasta sulla punta della
lingua quella risposta, tanto gli aveva fatto male ascoltare dalle
sue labbra quella proposta. Non era da Candy un comportamento simile,
però. Non era assolutamente da lei.
Le
luci della festa si riflettevano all’esterno, il grande falò
guizzava al cielo le sue fiamme e lui socchiuse gli occhi nel
tentativo di distinguere alcune persone in lontananza. Doveva tornare
alla festa, per quanto l’idea non lo allettasse per niente. Aveva
indugiato anche troppo ed entro mezzanotte tutti si sarebbero
accomiatati da quella casa. Si alzò controvoglia, e fissò lo
sguardo oltre il buio del parco. Poi si voltò lentamente, aggiustò
il plaid e sospirò forte. Non aveva scelta, le riflessioni
avrebbero dovuto aspettare. E a Candy avrebbe fatto bene stare un
poco da sola. Attraversò lo studio, scese le scale e gradino dopo
gradino svuotò la mente di tutto ciò che non gli tornasse utile
nell’immediato. Gli ospiti non se ne sarebbero andati senza
ricevere il commiato del padrone di casa.
Giunta
nella sua stanza Candy si gettò sul letto, raccolse le gambe al
grembo, si rannicchiò su un fianco e, in silenzio, iniziò a
piangere. No, non era quello che voleva. Non era quello che aveva
sperato, né voluto. Perché non era riuscita a baciarlo? Era
rimasta immobile come un sasso, totalmente in preda alle emozioni e
al panico. Lo aveva tanto immaginato, desiderato, sperato quel bacio,
e invece… Si vergognava da morire per quello che era riuscita a
chiedergli, senza poi nemmeno avere il coraggio di rispondere al suo
bacio. E adesso chissà lui cosa aveva capito, cosa poteva pensare di
lei. Aveva rovinato tutto, per paura. E lei non era mai stata
codarda. E nemmeno gelosa. Eppure le parole di Anice l’avevano
toccata nel profondo, portando alla sua coscienza emozioni che non
avrebbe mai creduto di poter provare. Con che coraggio lo avrebbe
guardato in volto l’indomani? Oltretutto l’aveva prima rifiutata,
e poi baciata per dimostrarle che non era quello che voleva. Non
aveva capito niente, niente… non aveva capito nemmeno quanto quel
bacio a fior di labbra fosse diventato importante per lei. Lo avrebbe
ricordato sempre quel bacio, con il suo calore, la sua dolcezza, a
perenne ricordo di quanto era stata stupida!
Rimase
a lungo rannicchiata in quella posizione, ferita, delusa e
arrabbiata. Le lacrime erano salate sulla lingua, e non ci sarebbe
stata più nessuna mano calda e gentile ad asciugargliele. Quel
pensiero le fece tremare le labbra e serrare la gola. Sperò che la
festa giungesse in fretta alla sua conclusione e che nessuno notasse
la sua assenza. Probabilmente Annie si stava chiedendo dove fosse
finita, ma Albert sarebbe stato bravo a inventarsi una qualche scusa
per giustificare il suo forfait, perché sapeva perfettamente e la
conosceva abbastanza bene da immaginare che lei al piano di sotto per
quella sera non ci sarebbe davvero riuscita più a tornare.
Un
leggero bussare alla porta la riscosse dal dormiveglia agitato nel
quale era caduta.
— Candy,
posso entrare?
La
voce calda e preoccupata di Annie le serrò la gola in un nodo di
pianto trattenuto.
— Come
stai? Albert mi ha detto che non ti sentivi bene e sono corsa a
vedere.
Si
sedette sul letto accanto all’amica e notate le lacrime le
accarezzò dolcemente i capelli.
— Cosa
succede, Candy?
— Oh
Annie! Sono stata una sciocca questa sera, non è vero? Ho lasciato
che tutti mi corteggiassero e li ho pure assecondati. Non è da me
comportarmi così, Annie!
— Lo
so, hai stupito anche me. Ma non ci vedo nulla di male, sei rimasta
sola così a lungo. Non mi sembra un buon motivo per versare tutte
queste lacrime.
— Non
ero sola, avevo Albert.
— Sai
cosa intendo, Candy.
Era
bello ricevere quelle carezze e quelle attenzioni da parte di Annie.
Non ci era abituata, di solito accadeva il contrario. E anche questo
non era da lei.
— Non
mi riconosco più.
— La
fai troppo tragica, Candy! Ti sei divertita per una sera, cosa c’è
di male in questo?
— Non
era quello che volevo, non…
— Sei
così angosciata per Connor? Non vi siete mica fidanzati, ha solo
chiesto di poterti frequentare!
— Connor?
Ah
sì, il ragazzo rosso di capelli. Se l’era già dimenticato. Se
solo avesse potuto confidarsi con Annie...ma non voleva doversi
giustificare, non voleva dare spiegazioni che non sarebbe mai
riuscita a sostenere. Non poteva parlarle di Albert, né di quanto
era successo quella sera.
— Il
ragazzo che ha chiesto di poterti corteggiare. — Annie le scostò i
capelli dal viso e scosse la testa preoccupata. — Non so cosa ti
angosci a questo modo Candy, ma non è piangendo che si risolvono i
problemi. Me lo dicevi sempre tu, ricordi? Ora asciugati quelle
lacrime e mettiti a dormire. Domani sarà una giornata impegnativa e
importante per tutti noi. Qualunque cosa sia successa questa sera
dovrà aspettare.
Candy
annuì, e ringraziò l’amica con un sorriso e un abbraccio.
— Ora
mi ritiro anch’io, Candy. Se hai bisogno di qualcosa, sai dove
trovarmi. Ti voglio bene, ricordalo!
Lo
sapeva. Anche lei gliene voleva, tanto. Ma c’erano cose che Annie
non poteva ancora capire. Rimasta sola si decise finalmente a
togliersi gli abiti della festa che ancora indossava per infilarsi
una camicia da notte che le arrivava fino a piedi e la faceva
inciampare in continuazione, ma talmente soffice sulla pelle che non
vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Quella sera poi aveva
proprio bisogno di qualcosa che la confortasse, la facesse sentire
coccolata e le sfiorasse la pelle come una carezza che non avrebbe in
altri modi ricevuto. Sentiva freddo però, tanto freddo, e nemmeno il
letto con le sue lenzuola fresche di bucato e la coperta di lana
riuscivano a sciogliere il gelo che sentiva dentro. Si alzò dal
letto, e a piedi scalzi, raggiunse la camera di Annie.
— Annie,
per questa notte posso dormire accanto a te, abbracciate come
facevamo da bambine?
La
ragazza dopo un attimo di smarrimento le sorrise, alzò le coperte e
le fece posto accanto a sé. Abbracciate nel buio, ascoltarono a
lungo in silenzio l’una il respiro dell’altra.
— Quando
sarai pronta mi dirai cosa ti fa stare così male, Candy?
— Te
lo prometto, Annie. Ma per stanotte ti chiedo solo di potermi
stringere un poco a te.
Si
addormentarono così, testa contro testa e con le mani intrecciate
sotto le coperte. Ma nemmeno il calore di Annie riusciva a
stemperarle quel gelo che sentiva aggredirle perfino le ossa.
**********
Il
giorno seguente fu totalmente dedicato alla celebrazione dei defunti.
L’aria di festa del giorno prima era svanita e al suo posto
aleggiava una tacita e composta malinconia. La colazione aveva
risentito ancora del clima del festa, ma dalla funzione religiosa in
poi gli animi si erano accordati alla commemorazione dei defunti. Dal
canto suo, Candy non riusciva a togliersi dalla testa ciò che era
successo la sera precedente. Albert, invece, sembrava sentirsi
perfettamente a suo agio e quel suo atteggiamento le creava, se
possibile, ancora più imbarazzo. E rabbia. Non era mai stata
arrabbiata con lui come in quel momento. Allo stesso tempo, però, si
sentiva malinconica, triste, e profondamente ferita nella sua
sincerità e buona fede. Se l’era cercata, era vero, eppure…
Non
riusciva ad essere spontanea, con lui, non riusciva a reggere nessuna
conversazione. Non riusciva nemmeno a reggerne lo sguardo, e si
sentiva terribilmente in colpa per questo. Era riuscita a rovinare
tutto, e con le sue stesse mani. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Il
pranzo fu da tradizione, esattamente come se lo era aspettato.
Quattro piatti però erano stati aggiunti al tavolo, ma i posti dei
loro commensali rimasero vuoti tutto il tempo che Candy trascorse a
immaginare i loro volti, a guardarli con la fantasia annuire, alzare
un bicchiere, portare alle labbra un boccone e sorridere alle parole
dei presenti in ricordo di un loro gesto, caratteristica o aneddoto.
Era talmente coinvolta nel racconto di quei ricordi che le era
sembrato davvero, di tanto in tanto, di vederli seduti al tavolo con
loro. Anthony, Stair, Rosemary, i signori Ardlay. Poteva vederli uno
a uno, e si commosse per quell’usanza di riportare in vita per un
giorno le persone che abbiamo amato e non ci sono più. Ma la cosa
più strana in assoluto che realizzò durante quel pranzo fu che per
la prima volta, in mezzo a tutti quei fantasmi, si era sentita
veramente in famiglia in quella casa.
— Non
dovresti angustiarti così tanto, qualunque cosa sia successa credo
che dovresti semplicemente parlargli.
Rimaste
sole nel salotto d’inverno a chiacchierare di fronte al camino,
Annie aveva parlato senza alzare gli occhi dal suo ricamo. Gli uomini
di casa erano usciti per una cavalcata nel parco, la Prozia si era
ritirata per il suo riposo pomeridiano e quello era il primo momento
in cui le due ragazze avevano trovato un poco di tempo per parlare.
— È
stato Albert ieri a chiedermi di salire da te e vedere come stavi.
Candy
continuò a osservare il fuoco in silenzio, ricacciando indietro le
lacrime che sentiva affiorarle agli occhi.
— Albert
mi ha chiesto se voglio essere adottata a tutti gli effetti.
Aveva
sussurrato quelle parole pronunciandole come un liberazione. Annie
abbassò il suo telaio da ricamo sulle ginocchia e la guardò
stupita.
— Santo
Cielo Candy… non ne sapevo niente! E tu...
— Ho
paura di aver rovinato in modo irrecuperabile il rapporto che
avevamo, Annie.
Si
asciugò una lacrima e raccolse le gambe al petto. Non era molto
signorile come postura, ma non le importava. Annie sospirò.
— Albert
è una persona ragionevole. Qualunque cosa sia successo tra voi
quella strana oggi sei tu Candy, non lui.
E
quella era un’altra delle cose che la facevano stare male. Candy
non rispose, ed Annie non insistette. Dopo un lungo silenzio in cui
ognuna si perse nelle proprie riflessioni, Annie abbandonò
definitivamente il telaio sul divano, posò una mano sulla spalla
dell’amica e la fissò seria in volto.
— Dovresti
dirgli quello che provi per lui, Candy. E poi metterti l’anima in
pace in un modo o nell’altro.
Candy
tirò su con il naso, e non cercò più di trattenere le lacrime che
presero a scorrerle lente sulle guance. Pure Annie aveva capito!
— Grazie
Annie. Ma non è tutto così semplice come può sembrare.
**********
Aveva
evitato Albert il più possibile dalla sera precedente, era riuscita
ad evitare in tutti i modi di rimanere da sola con lui e trovarselo
di fronte la sera, senza preavviso, nella biblioteca deserta della
villa la fece sussultare e fare un balzo istintivo all’indietro.
— Perdonami
Candy, ti ho spaventata.
Le
sorrise, ma lo sguardo che le rivolse mostrava preoccupazione.
— No,
scusami tu. Io… ero venuta a cercare un libro.
— In
biblioteca?
Lo
fissò con aria interrogativa, poi capì che la stava prendendo in
giro.
— Se
mi dici cosa stavi cercando ti posso aiutare.
Era
l’Albert di sempre, gentile e premuroso. Ma lei non riusciva a
guardarlo senza pensare a ciò che era successo la sera precedente. E
la delusione per ciò che aveva ottenuto, la rabbia per il
comportamento di lui, la vergogna per come se n’era andata le
impedivano qualunque risposta. Voleva solo fuggire da lui, dai
ricordi, dai pensieri e dai sentimenti. E fu quello che fece, fuggì.
Senza guardarlo, lentamente, si allontanò dalla biblioteca e
raggiunse Annie ed Archie intenti a chiacchierare nel salotto
invernale. Come poteva far finta di nulla in quel modo pure quando
erano da soli? Sperò tanto non li raggiungesse, e trasse un sospiro
di sollievo quando non lo fece. Saggia scelta per lui preferire la
compagnia di George quella sera, o della Prozia. Ringraziò il cielo
per questo, anche se il pensiero le fece male. Già le era
impossibile comportarsi normalmente alla loro presenza, con Albert
ora sarebbe stato del tutto impossibile. Ma trascorse poco tempo che
iniziò a sentirsi a disagio pure accanto ad Annie ed Archie. Si
rendeva conto che la colpa era solo sua, i suoi amici non c’entravano
assolutamente nulla. Aveva bisogno di stare sola, vedere una coppia
di innamorati in quel momento era qualcosa che le faceva avvertire
troppo la delusione e la solitudine. Era felice per loro,
genuinamente felice. Ma aveva bisogno di ritrovare se stessa.
Dopo
una lunga passeggiata nel parco della villa tornò nella sua camera e
si distese sul letto, perdendosi a guardare il soffitto. Le luci
ormai erano tutte state spente e il grande falò acceso la sera
precedente sul viale d’entrata alla villa non mandava più i suoi
bagliori a rischiarare il buio. Le lanterne a forma di zucca erano
state gettate e nessun morto era realmente tornato in quella casa. Il
tempo dei sogni ad occhi aperti, per lei, era finito.
Si
avvolse intorno alle spalle il plaid con i colori del clan che Albert
le aveva regalato il giorno prima e uscì sulla grande terrazza della
sua camera da letto, impossibilitata a prendere sonno. Troppi
pensieri le vorticavano nella mente, e a nessuno riusciva a dare una
risposta. Come poteva Albert comportarsi in modo così naturale,
dopo ciò che era successo tra loro la sera prima? Come poteva,
proprio lui, essere così freddo e indifferente? Da un lato pensava
che avrebbe dovuto esserne contenta, il suo terrore di aver rovinato
il rapporto speciale che li univa poteva essere (forse) accantonato,
dall’altra le sembrava artificioso, innaturale. Qualcosa, ad ogni
modo, si era spezzato. E lei naturale non riusciva ad esserlo per
niente.
Lasciò
il parapetto sul quale si era affacciata e andò a sedersi sul
divanetto in vimini appoggiato al muro accanto alla vetrata. Faceva
parte del nuovo arredo che Albert le aveva regalato per il
compleanno. Sorrise malinconica a quel pensiero, e accarezzò assorta
il tessuto ruvido dell’imbottitura. Era possibile cambiare così
velocemente in un paio di giorni? Eppure, sentiva di non essere la
stessa Candy che era arrivata a Chicago solamente il giorno prima.
Era cambiato qualcosa in lei. Si sentiva in qualche modo cresciuta, e
avrebbe tanto preferito rimanere nella beata illusione nella quale si
era cullata fino a poche ore prima. Si strinse nel plaid e accavallò
le gambe. Nemmeno quel gesto le apparteneva. Da quando aveva iniziato
a sedersi in quel modo? Gettò un’occhiata alla terrazza adiacente,
e fu allora che lo vide. Seduto sul lato esterno della balaustra,
appoggiato al muro, Albert la stava osservando. Da quanto tempo era
lì?
— Dobbiamo
parlare, Candy.
La
sua voce le arrivò insieme a una folata di aria fresca, gentile e
dolce come sempre, ma ferma. Non glielo stava chiedendo.
— Albert,
per favore…
— No
Candy. Dobbiamo. Domani tornerai alla casa di Pony, non abbiamo altro
tempo.
Sapeva
che aveva ragione e non gli rispose, né lo guardò. Lo sentì
avvicinarsi e scavalcare senza difficoltà il muretto che divideva le
due terrazze, e in un attimo le fu accanto.
— Passi
sempre così da una camera all’altra? — gli chiese sbigottita,
dimenticando per un attimo il suo imbarazzo.
— No.
Questa è la prima volta da molti anni a questa parte — le rispose
sorridendo. — Posso sedermi accanto a te?
Nonostante
il divano fosse bello largo lei si ritrasse comunque verso il
bracciolo, e lui fece bene attenzione a mantenere le distanze.
— Albert,
io non so cosa dire. Sono arrabbiata, delusa, imbarazzata. Non me la
sento di parlare.
— Almeno
puoi ascoltarmi?
— Non
ne sono sicura.
Lui
attese qualche istante, accavallò a sua volta le gambe e abbassò il
capo.
— È
colpa mia Candy. Ti chiedo scusa.
Erano
le ultime parole che si sarebbe aspettata di ascoltare. Si voltò a
guardarlo con aria piuttosto scettica, anche perché per cosa le
chiedeva scusa? Aveva fatto tutto lei!
— Quello
che sto per dirti è un qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo
fa. Ma ho avuto paura.
— Di
me? — gli chiese, ancora più stupita di prima. Lui sorrise
sarcastico, più per se stesso che per lei.
— No,
non di te. Avevo paura di perderti.
Lo
fissò ancora più stralunata. Quelle parole avrebbe dovuto
pronunciarle lei, non lui. Si stava ribaltando tutto, e lei non
capiva più niente.
— Ieri
mi hai preso completamente in contropiede, mi sentivo allo sbaraglio
e ho avuto reazioni impulsive. Ti chiedo scusa per non averlo capito
subito.
La
guardò e lei si sentì in soggezione sotto quello sguardo. Sembrava
che tutte le stelle della notte si riflettessero nei suoi occhi,
illuminandoli.
— Tu
sei bellissima Candy. Qualunque uomo ti desidererebbe, e io non
faccio eccezione. Di fronte a una proposta come la tua qualunque uomo
sano di mente ti avrebbe risposto di sì, ma io non posso. Non posso
fare semplicemente sesso con te, perché non ci riuscirei. Tu non sei
solo bella, sei tu. Ma anche se ti desidero da morire sono stato
costretto a rifiutare la tua proposta. Ieri mi hai messo
letteralmente in croce, perché vedevo i miei desideri realizzarsi da
un lato e i miei sentimenti infrangersi dall’altro. Non posso
accettare di fare sesso con te perché io con te voglio fare l’amore.
Sono innamorato di te, Candy, e lo sono da tanto, troppo tempo,
ormai.
Non
aveva mai distolto gli occhi dai sui durnate tutto il suo discorso, e
aveva visto le emozioni alternarsi in quelli di lei, e sentito il
nodo che gli serrava la gola affievolirgli la voce sulle ultime
parole. Abbozzò un sorriso imbarazzato e vide gli occhi di lei
inumidirsi di lacrime. Ma forse erano i suoi ad essere offuscati
dall’emozione.
— Ecco,
l’ho detto. Ti chiedo scusa per non averlo fatto prima.
Adesso
lei stava davvero piangendo.
— Che
sciocco sei, mio piccolo Bert! — gli disse allungando una mano per
accarezzargli una guancia. — Ma come hai potuto pensare che io
potessi chiederti di fare l’amore con me se non provassi nulla per
te?
Lui
sorrise, e le coprì la mano sul volto con la sua.
— L’ho
capito dopo. Però devi ammettere che come dichiarazione d’amore è
piuttosto inusuale.
Si
trattennero entrambi dal ridere, e lei si sentiva troppo felice per
provare ancora imbarazzo al ricordo.
— Sono
innamorata di te, Albert. Talmente innamorata da commettere
sciocchezze da manuale.
— Vieni
qui — le sussurrò lui attirandola a sé, con una voce così calda
che le sciolse il cuore, per poi farla alzare in piedi e abbracciarla
stretta. E quando la baciò le sue labbra non erano più serrate e
fredde come il marmo, ma calde, invitanti, e dischiuse completamente
a lui.
— Le
gambe mi tremano talmente tanto che se non mi reggi potrei cadere.
Lui
l’abbracciò più stretta, le sorrise sulle labbra e la baciò di
nuovo.
— Non
permetterò mai che tu cada a terra, Candy. Ti sorreggerò sempre, e
se nonostante questo dovessi cadere comunque sarò lì accanto a te,
a rimetterti in piedi. È una promessa.
Fu
lei a cercare le sue labbra questa volta, sicura che sorretta tra le
sue braccia sarebbe riuscita a sopportare qualunque caduta. Rise
quando lui la sollevò in aria e la fece volteggiare, rise con lui,
rise per lui. Quel peso che le aveva oppresso il petto era
definitivamente scomparso e si sentiva leggera, libera, felice. E le
girava la testa.
Crollarono
sul divanetto ancora ridendo, e lui intrecciò una mano a quella di
lei.
— Mi
gira la testa!
— Sdraiati.
— Dove?
— Qui.
Appoggia la testa sulle mie gambe.
Le
sembrò una buona idea, anche se le gambe a penzoloni sul bracciolo
non le avrebbe dato un’aria particolarmente femminile. Ma seguì
comunque il consiglio.
— Così
sei innamorato di me e mi desideri da morire.
Le
labbra gli si incresparono in un sorriso trattenuto e le lanciò uno
sguardo divertito.
— Già.
— Senti,
ma con Anice tu…
— Dobbiamo
proprio parlare di Anice?
— Bè…
Le
scostò una ciocca di capelli dalla fronte e seguì il profilo del
suo volto con un dito.
— Candy,
in questo momento non ricordo nemmeno che faccia abbia Anice.
Il
modo in cui lo disse, come fosse la cosa più ovvia del mondo, le
suscitò una risatina soddisfatta.
— Lo
trovi divertente?
— No.
È solo che mi sembra strano che tu possa desiderare me. Ero perfino
arrivata a pensare che mi considerassi una sorta di sorellina.
Lui
inarcò un sopracciglio e scosse il capo.
— Non
immagini nemmeno quanto, Candy.
La
vide arrossire leggermente e abbozzò un sorriso. Seguì con un dito
il contorno delle sue labbra, e lei socchiuse appena la bocca. — Ma
saprò aspettare tutto il tempo necessario. Non è la cosa più
importante.
— Bè…
Lui
fermò il gesto e alzò nuovamente un sopracciglio.
— Cioè,
dopo ieri sera credo non ci sia più niente in grado di imbarazzarmi
maggiormente.
Lui
continuò a fissarla, alquanto perplesso.
— Ci
ho pensato spesso, sai? A come sarebbe stato baciarti, fare l’amore
con te. Spero solo che la mia prima volta non sia come il primo bacio
che ci siamo scambiati. Morirei dalla vergogna.
Lui
rise, e la coprì con il plaid che era scivolato a terra.
— Un
blocco di ghiaccio sarebbe stato più caldo, in effetti. — La
guardò. — Dove lo hai immaginato, Candy? Dove ti piacerebbe che
accadesse?
Arrossì
un poco, anche perché sul luogo in sé non è che si fosse mai
concentrata particolarmente.
— Non
saprei. Diciamo che… posso tralasciare questa parte?
Lui
rise di nuovo, quanto gli era mancata quella sua spontaneità!
— Lo
prendo per un sì. Mi piacerebbe che fosse un luogo solo nostro, dove
tu possa essere semplicemente tu e io essere me stessa. Noi due,
insieme, come alla Magnolia. Forse… nel capanno a Lakewood.
Lo
guardò, e la dolcezza dello sguardo che incontrò nei suoi occhi le
sciolse il cuore. E quel sorriso…
— Mi
prenderò qualche giorno il prima possibile, verrò a prenderti e ti
porterò a Lakewood. Certo, il capanno sarebbe un po’ da pulire…—
Pulire era un eufemismo. Quel posto aveva bisogno di una vera e
propria disinfestazione, ma era un problema assolutamente
risolvibile. — Trascorreremo del tempo insieme, senza obblighi né
aspettative, sarà quel sarà. A me è sufficiente stare con te,
Candy.
— Promettimelo
Albert.
Le
sorrise.
— Prometto.
Rimasero
in silenzio per un po’, a godere semplicemente l’uno della
presenza dell’altro. Candy si cullò tra le sue braccia, era bello
sentire il suo calore e le carezze delicate delle dita di lui sul
viso. Si sarebbe potuta addormentare tanto si sentiva in pace,
serena, rilassata e protetta.
— Candy,
posso farti una domanda? — le chiese rompendo il silenzio, dopo
averci riflettuto un po’ su.
— Si,
certamente. Tanto, ormai!
Era
divertente, sul serio, e gli sfuggì una risatina.
— Quel
sapone l’avevi dimenticato nella doccia o lo hai lasciato lì
apposta?
— L’hai
usato?
Le
diede un buffetto sul naso con il dito, e socchiuse leggermente gli
occhi, divertito.
— Mi
devo abituare a questa nuova te, ma non dispiace per niente.
Lei
dondolò un po’ le gambe per riattivare la circolazione, anche se
per quanto la riguardava sarebbero anche potute andarle in gangrena,
tanto lei a schiodarsi da quella posizione non ci pensava per niente.
— Ho
avuto il terrore di perderti, Albert. Non riesco a immaginare una
vita senza te al mio fianco, è un pensiero che mi fa stare male. Mi
mette ansia e mi fa precipitare in un baratro di freddo e solitudine.
Ho rinunciato a tante cose nella mia vita, ho detto addio a così
tante persone, ma non riesco a farlo con te. Tu ci sei sempre stato.
È quando ho realizzato tutto questo che ho capito di essere
innamorata di te.
Lui
rimase in silenzio a lungo, continuando ad accarezzarla con le dita e
con lo sguardo. Quando finalmente parlò, la sua voce tremava
leggermente.
— Io
ci sarò sempre per te, Candy. Mi hai dato speranza quando pensavo di
averla perduta e desideravo solo morire. Mi hai dato calore, una
casa, un nome. Hai rimesso insieme i cocci sparsi della mia esistenza
e mi hai fatto tornare uomo. Mi hai dato amore, disinteressatamente,
e mi hai restituito la vita. Dopo aver fatto risorgere in me la
speranza hai fatto nascere in me l’amore. Nemmeno io posso più
fare a meno di tutto ciò che mi hai donato e desidero solo
restituirtelo, amandoti nell’unico modo in cui so amare. Restando
al tuo fianco, risollevandoti ad ogni caduta, portando luce nelle tue
giornate buie, condividendo con te gioie e dolori, nella buona e
nella cattiva sorte.
— In
salute e in malattia? — gli chiese, con le lacrime agli occhi.
— Tutti
i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.
Ora
Candy stava piangendo davvero. Lui non le asciugò le lacrime però,
le sorrise soltanto.
— Sono
io a chiedertelo adesso: accetti la mia proposta?
Scattò
in piedi così velocemente che per poco non perse l’equilibrio, poi
gli saltò al collo, infine si mise a cavalcioni sulle sue gambe per
riuscire ad abbracciarlo ancora più stretto.
— Certo
che sì! O sì Albert, sì,sì!
Le
prese il volto tra le mani e la baciò, e in quel momento il sale
delle lacrime sulle labbra di lei gli sembrò il più dolce dei
sapori.
— Candy,
se mi baci in questo modo però, e in questa posizione, non è facile
per me mantenere salda la testa.
Arrossì
violentemente e si mosse per scendere dalle sue gambe ma lui la
trattenne posandole le mani sui fianchi.
— No,
aspetta, rimani. Stavo scherzando, più o meno. Non è un problema,
davvero.
Si
sedette sulle sue cosce e gli allacciò le braccia al collo.
— A
discapito di tutto ciò che ho detto posso aspettare tranquillamente
il matrimonio. Mi piacerebbe solo che tu continuassi ad essere
spontanea come sei adesso, però.
Fu
lei a sorridergli ora, e ad accarezzargli il viso ruvido dalla barba
in ricrescita,
— Non
m’importa aspettare il matrimonio. Quando mai abbiamo seguito
qualche regola, noi due? Io voglio solo stare con te. Il resto è
solo una formalità che non ci appartiene.
La
baciò in risposta, ed era bello sentire come si abbandonasse
totalmente a lui. La baciò ancora, e ancora, finché lei non lo
allontanò con un sorriso furbo sul volto acceso.
— Aspetta.
C’è una cosa che devo assolutamente fare.
La
osservò armeggiare con l’abito, finché non la vide estrarre da
una tasca laterale un foglio piegato in quattro, che lei strappò
con soddisfazione e gli restituì. Albert inclinò leggermente la
testa all’indietro, e scoppiò in una sonora risata. Poi le prese
il foglio strappato dalle mani e lo gettò con noncuranza al suolo.
— Come
ti è saltato in testa che io volessi essere adottata da te, poi!
— L’amore
fa fare cose stupide, a quanto pare.
La
baciò di nuovo, e sollevò le mani ad accarezzarle la schiena, i
capelli. La sentì stringerlo più forte a sé, e desiderare con
trasporto quei baci e quelle carezze. Si alzò dal divanetto
tenendosela in braccio, e senza smettere di baciarla la sospinse
all’interno della camera e la adagiò sul letto.
— Pensavo
di conoscerti bene, ma sei una sorpresa continua. Non cambiare mai,
Candy.
Disteso
su un fianco accanto a lei le accarezzò il viso, le labbra, il
collo.
— Verrai
comunque a prendermi per portarmi a Lakewood? — gli chiese, con la
voce leggermente tremula per l’emozione.
— Non
mi rimangio mai le promesse fatte — le sussurrò all’orecchio con
la voce leggermente arrochita. Poi le sorrise, le sciolse i capelli
dal nastro in cui erano stretti e la baciò.
Crediti per l'immagine a Yumiko Igarashi